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NON IMPORTA SE A DIRLO È LA CASSAZIONE... PDF Stampa E-mail
martedì 17 luglio 2007
Due sembrano essere gli orientamenti giurisprudenziali "esterni" che sono risultati sommamente indigesti al giudice amministrativo.

Il primo è quello iniziato con la sentenza Corte cost. 204/2004: di fronte alla riduzione della giurisdizione esclusiva con quella sentenza operata, la reazione del giudice amministrativo sembra essere stata quella del "tanto peggio, tanto meglio". Con la conseguenza che vi è in ogni sentenza la ricerca dell'esercizio (concreto, puntuale) del potere. In sua mancanza viene invece negata la giursdizione dei T.A.R. (ma così facendo viene negata anche la sussistenza della giurisdizione esclusiva in sé e in astratto).

Il secondo orientamento è quello iniziato dalla Corte di cassazione nel 2006, allorché essa ha negato la regola del pregiudiziale annullamento dell'atto, nelle controversie risarcitorie per lesione dell'interesse legittimo.

In questa scia si riconduce anche la sentenza che segue, in cui il Relatore (forse con sforzo eccessivo, rispetto alle ragioni della causa), esprime opposizione all'impostazione seguita dalla Cassazione, con modalità che, forse, fanno pensare quasi ad un intento didascalico.
T.A.R. Veneto, sez. I, 2503/2007:
<<Il Collegio, peraltro, reputa doveroso in tale contesto farsi carico anche di quell’indirizzo giurisprudenziale che, muovendo dalle ben note ordinanze nn. 13659, 13660 e 13911 dd. 13 giugno 2006 rese dalle Sezione Unite della Corte di Cassazione, reputa che, qualora si sia in presenza di atti riferibili oltre che ad una pubblica amministrazione a soggetti ad essa equiparati ai fini della tutela giudiziaria del destinatario del provvedimento e l’atto sia capace di esplicare i propri effetti, la tutela giudiziaria dovrebbe essere chiesta al giudice amministrativo, segnatamente non soltanto nella forma demolitoria degli atti impugnati e - insieme o successivamente - nella forma demolitoria e risarcitoria, ovvero anche nella sola forma risarcitoria, senza dover osservare in tale ultima evenienza il termine di decadenza di sessanta giorni proprio dell’azione di annullamento e contemplato dall’art. 21, primo comma, della L. 6 dicembre 1971 n. 1034 come modificato dall’art. 1 della L 21 luglio 2000 n. 205.
Tale indirizzo non persuade il Collegio per una serie di motivi, qui appresso illustrati.
A seguito dell’entrata in vigore delle riforme che hanno introdotto la regola della risarcibilità della lesione arrecata all’interesse legittimo, sono state invero sostenute opposte tesi – sia in dottrina che in giurisprudenza - sulla possibilità per il soggetto leso dall’atto autoritativo di chiedere il risarcimento del danno da questo conseguente, dopo la scadenza del termine per la sua impugnazione.
A ben vedere, tali opposte tesi si sono formate, innanzitutto, per una diversa qualificazione della posizione soggettiva posta a base della domanda risarcitoria, nonché per una diversa ricostruzione dei principi che si sono progressivamente affermati nell’ambito della giurisdizione amministrativa al fine di garantire la più ampia tutela a beneficio dei soggetti destinatari di atti autoritativi illegittimi.
L’ammissibilità, in tal senso, di una domanda processuale autonoma e svincolata dalla tempestiva impugnazione dell’atto lesivo, a volte è stata quindi ammessa ravvisando una posizione di diritto soggettivo al risarcimento del danno, riconducibile alla disciplina sulla responsabilità extracontrattuale, ovvero alla disciplina in tema di responsabilità contrattuale.
Secondo altre opinioni, l’ammissibilità di un tale tipo di domanda è stata ammessa in base ad una peculiare ricostruzione “dogmatica” della fattispecie nel contesto di una vera e propria nuova teoria generale dell’illecito, in forza della quale l’atto lesivo, in relazione ai propri effetti produttivi di danno, dovrebbe essere considerato dal giudice amministrativo non in quanto tale, ma in quanto vero e proprio elemento costitutivo dell’illecito medesimo.
Ciò premesso, ad avviso di questo giudice, nell’attuale quadro normativo – anche, e soprattutto, di rilievo costituzionale – non possono sussistere dubbi circa la natura della posizione di colui che chiede il risarcimento del danno derivante dall’emanazione di un atto amministrativo autoritativo, posto che questo seguita comunque ad incidere su di una posizione di interesse legittimo, ancorché normativamente definita – ora – come risarcibile (cfr. art. 7, terzo comma, prima parte della L. 6 dicembre 1971 n. 1034, così come sostituito per effetto dell’art. 35 del D.L.vo 31 marzo 1998 n. 80 nel testo a sua volta sostituito dall'art. 7, comma l, della L. 21 luglio 2000 n. 205: “Il tribunale amministrativo regionale, nell'ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all'eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali”).
Invero, come hanno chiarito le sentenze della Corte Costituzionale 6 luglio 2004 n. 204 e 11 maggio 2006 n. 191, la L. 205 del 2000, nel novellare l’art. 35 del D.L.vo 80 del 1998, ha attribuito all’esclusiva giurisdizione del giudice amministrativo la cognizione delle domande risarcitorie fondate sulla lesione arrecata ad una posizione soggettiva di interesse legittimo.
Va, peraltro, evidenziato che ciò non configura la sussistenza nel “sistema” di un “diritto” tutelato dal codice civile al risarcimento del danno arrecato all’interesse legittimo mediante un atto autoritativo, ma introduce nel “sistema” medesimo una nuova connotazione di interesse legittimo, tutelato quindi da una legge “speciale” rispetto al codice civile, non soltanto con l’annullamento dell’atto lesivo, ma anche con il risarcimento del danno conseguentemente subito, semprechè - ovviamente - risulti l’antigiuridicità del danno e la sua riferibilità ad un comportamento dell’autore.
Sempre in via, per così dire “sistematica”, va pure evidenziato che, per quanto segnatamente attiene alla ricostruzione della fattispecie e alla struttura dell’illecito amministrativo derivante dalla lesione all’interesse legittimo, le riforme introdotte con il D.L.vo 80 del 1998 e con la L. 205 del 2000 anche in connessione al precedente art. 13 della L. 19 febbraio 1992 n. 142 e alle altre fonti normative “derogatorie” rispetto all’allora diritto “vivente” italiano (cfr. art. 11 della L.19 dicembre 1992 n. 489; art. 11 della L. 22 febbraio 1994 n. 146 e l’art. 30 del D.L.vo 17 marzo 1995 n. 157 nel suo testo originario, ossia antecedente alla novella di coordinamento con il D.L.vo 80 del 1998 introdotta mediante l’art. 17 del D.L.vo 25 febbraio 2000 n. 65) che avevano già ammesso la tutela risarcitoria per gli interessi di rilievo comunitario, non hanno previsto una nuova “materia” attribuita alla giurisdizione esclusiva, ma hanno introdotto uno strumento di tutela ulteriore, rispetto a quello di annullamento risalente nel “sistema” alla storica L. 31 marzo 1889 n. 5992, istitutiva della Quarta Sezione del Consiglio di Stato.
Infatti, le leggi che hanno ammesso la risarcibilità del danno arrecato all’interesse legittimo (prima in tema di appalti assoggettati alla disciplina comunitaria, poi in tutti i casi in cui sussiste la giurisdizione amministrativa, ai sensi dell’anzidetto art. 35 del D.L.vo 80 del 1998 come sostituito dall’art. 7 della 205 del 2000) hanno consapevolmente valutato e innovato l’ordinamento della giustizia amministrativa sul piano della giurisdizione e su quello sostanziale.
Nel precedente quadro normativo, invero, si ammettevano al riguardo la sussistenza della giurisdizione ordinaria e l’applicabilità dell’art. 2043 c.c. soltanto qualora il provvedimento autoritativo, annullato nella sede propria della giustizia amministrativa, avesse inciso su una previa posizione legittimante di diritto e dunque di ‘interesse” c.d. “oppositivo”, con la conseguente nascita della regola giurisprudenziale della pregiudizialità, in forza della quale potrebbe essere proposta una domanda risarcitoria innanzi al giudice civile solo nel caso di annullamento dell’atto da parte del giudice amministrativo.
Per converso, e sempre nel precedente quadro normativo, era escluso che l’art. 2043 c.c. o altra disposizione del Codice Civile contemplasse la lesione arrecata all’interesse c.d. “pretensivo”, con la conseguenza che era esclusa la risarcibilità del danno, anche nel caso di annullamento del provvedimento impeditivo della venuta ad esistenza del diritto.
E’ bene rimarcare che tale sistema, normativamente fondato – per quanto detto sopra - sulle stesse disposizioni di legge che avevano correlato all’interesse legittimo la sola tutela di annullamento precludendo expressis verbis al giudice amministrativo la cognizione delle questioni patrimoniali consequenziali all’annullamento, di per sé non contrastava con l’art. 28 Cost., in forza del quale la pretesa ad ottenere un risarcimento del danno da parte dell’Amministrazione Pubblica è costituzionalmente garantita solo allorquando essa debba solidalmente rispondere della lesione di un diritto.
Anche la Corte Costituzionale era – del resto - pervenuta a tale conclusione, affermando a sua volta che l’irrisarcibilità della lesione arrecata all’interesse legittimo pretensivo, in quanto essenzialmente connessa alla disciplina pubblicistica, non contrastava con i principi costituzionali, nel mentre “il problema di ordine generale” comunque richiedeva “prudenti soluzioni normative, non solo nella disciplina sostanziale, ma anche nel regolamento delle competenze giurisdizionali” (cfr. Corte Cost., 25 marzo 1980. n. 35) con la possibilità di “una unificazione per evitare una duplicità di giudizi con competenza ripartita” (cfr. Corte Cost., ord. 8 maggio 1998 n. 165).
Come si è detto innanzi, la regola pubblicistica dell’irrisarcibilità della lesione arrecata all’interesse pretensivo è stata dapprima incisa dalla normativa sugli appalti di rilievo comunitario.
Superando settorialmente lo storico significato del concetto di responsabilità (esteso in tal modo anche all’illegittimo esercizio della funzione, in quanto lesivo della pretesa alla stipula di un contratto ancorché in assenza di un diritto alla stipula medesima), il legislatore aveva infatti ammesso la proponibilità dell’azione risarcitoria dinanzi al giudice civile, subordinandola comunque al previo annullamento dell’atto lesivo da parte del giudice dell’interesse legittimo (cfr. in tal senso i predetti art. 13 della L.142 del 1992, art. 11 della L. 489 del 1992, art. 11 della L.146 del 1994 e art. 30 del D.L.vo 157 del 1995nel suo testo originario).
Di tali articoli di legge – giova ribadire, espressamente fondati sul principio della pregiudizialità dell’annullamento dell’atto lesivo rispetto al susseguente giudizio di danno – non è mai stata ipotizzata alcuna incostituzionalità, posto che essi hanno aggiunto la tutela ulteriore del risarcimento del danno per i casi in cui la tutela d’annullamento non avesse dato un effettivo soddisfacimento alla posizione lesa dall’atto illegittimo (ad esempio, perché nel corso del processo amministrativo, conclusosi con l’annullamento dell’aggiudicazione o di una esclusione dalla gara, vi era già stata l’esecuzione del conseguente contratto).
L’art. 35 del D.L.vo 80 del 1998, nell’abrogare tali disposizioni di legge e fondando un nuovo sistema di responsabilità per l’illegittimo esercizio del potere pubblico, ha poi attribuito alla giurisdizione amministrativa esclusiva, nelle tre materie di cui agli articoli 33 e 34, anche ogni altra controversia riguardante “il risarcimento del danno ingiusto”, arrecato all’interesse legittimo, sia esso di natura oppositiva o pretensiva.
Per le posizioni già in precedenza tutelate sul piano risarcitorio (nei casi di preesistenza della posizione legittimante di diritto ovvero degli appalti di rilievo comunitario), l’art. 35 del D.L.vo 80 del 1998 (poi modificato, come si è detto innanzi, per effetto dell’art. 7 della L.. 205 del 2000) ha fatto venire meno le regole processuali (una di conio giurisprudenziale, l’altra espressamente affermata dal legislatore) del duplice giudizio di cognizione presso giurisdizioni diverse (di cui quella civile sussisteva solo se il giudice amministrativo avesse annullato l’atto lesivo).
Il medesimo art. 35 ha - quindi - previsto che il giudice amministrativo conosca, sotto ogni profilo e in base al principio di concentrazione processuale, del provvedimento impugnato e delle lesioni da questo arrecate anche tramite la sua esecuzione, ma non introduce - si badi - alcuna norma incidente sul consolidato principio per il quale l’oggetto principale del giudizio è l’atto lesivo, né su quello per il quale l’inoppugnabilità dell’atto preclude la verifica della antigiuridicità del danno, in quanto cagionato secondum ius.
Quanto agli interessi pretensivi non aventi un rilievo comunitario, la riforma del 1998 (valutando anche le risorse della finanza pubblica complessivamente disponibili) ha consapevolmente effettuato una scelta innovativa, sul piano processuale e su quello sostanziale.
Sul piano processuale, lo ius novum ha infatti devoluto al giudice amministrativo la giurisdizione sulla domanda risarcitoria (in applicazione dell’art. 103, primo comma, Cost.); sul piano sostanziale, la medesima riforma ha completato il sistema di tutela risalente alla predetta L. 5992 del 1889 e ancora ribadito con la L.. 1034 del 1971 (per il quale, di regola, il ricorrente otteneva una adeguata tutela con la rimozione del provvedimento lesivo ed il conseguente obbligo di conformazione dell’azione amministrativa al dictum del giudice), ammettendo quindi che il giudice amministrativo possa sindacare il provvedimento impugnato - impeditivo della nascita del diritto - anche in relazione alla domanda risarcitoria.
La L. 205 del 2000, nel novellare l’art. 35 del D.L.vo 80 del 1998, sul piano della giurisdizione e su quello sostanziale ha pertanto esteso il potere del giudice amministrativo di disporre “l’eventuale risarcimento del danno … nell’ambito della sua giurisdizione”, generalizzando in tal modo il principio in forza del quale l’interesse legittimo è tutelato in sede giurisdizionale non solo con l’annullamento, ma anche con lo “strumento di tutela ulteriore” del risarcimento (cfr., su tale specifico profilo, le sentenze della Corte Costituzionali n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006, dianzi citate).
Deve dunque concludersi nel senso che l’attuale ordinamento consente, al giudice amministrativo (nell’ambito della “sua giurisdizione”, ai sensi dell’art. 7 della legge n. 205 del 2000, e dei suoi poteri, attinenti ai limiti interni della giurisdizione: Corte Cost., sent. 12 marzo 2007, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 14 marzo 2007) di verificare se l’accoglimento della domanda principale di annullamento dell’atto impugnato – in sede giurisdizionale o straordinaria - comporti una tutela pienamente soddisfacente e se – conseguentemente – sussistano, o meno, i presupposti per disporre, anche in alternativa, la condanna ad un risarcimento, qualora il ricorrente non possa conseguire dall’annullamento nonché dalle connesse statuizioni coercibili col giudizio di ottemperanza di cui all’art. 37 della L. 1034 del 1971 e agli artt. 90 e 91 del R.D. 17 agosto 1907 n. 642, una piena tutela (in ragione della irreversibile esecuzione dell’atto), ovvero un’effettiva utilità (per un ostacolo derivante dal diritto pubblico, quale l’impossibilità giuridica di emanare un ulteriore provvedimento, emendato dal vizio già riscontrato, o la consolidazione della posizione di un terzo).
In considerazione della scelta del legislatore di disporre un organico sistema, nel quale la tutela risarcitoria costituisce un rimedio di tutela ulteriore per chi abbia tempestivamente e fondatamente impugnato l’atto lesivo, avvalendosi di uno dei due rimedi previsti dall’ordinamento, e cioè del ricorso giurisdizionale o di quello straordinario, non può – dunque - che ribadirsi, anche sulla scorta di quanto già puntualmente affermato da Cons. Stato, A.P., 26 marzo 2003 n. 4, che il soggetto leso da un provvedimento autoritativo può ottenere il risarcimento del danno solo ove lo abbia fondatamente impugnato nel prescritto termine di decadenza, posto che la mancanza di impugnazione rende inoppugnabile il provvedimento e comporta che la lesione vada considerata secundum ius, nel senso che il danno patrimoniale si fonda su un titolo giuridico che è divenuto insindacabile in ogni sede giurisdizionale (cfr., puntualmente, Cons. Stato, A.P.. ord. 30 marzo 2000 n. 1, nonché Sez. VI, 14 marzo 2005 n. 1047 e Sez. VI, 18 giugno 2002, n. 3338).
Né va sottaciuto che a conforto di tale tesi rileva pure il necessario accertamento giudiziale – effettuato, come è ben noto, anche d’ufficio dal giudicante – in ordine alla ritualità del ricorso, poiché ove esso risulti irricevibile o inammissibile o infondato, non potrebbe da parte del giudice amministrativo ravvisarsi d’ufficio l’illegittimità dell’atto al fine di una statuizione di condanna al risarcimento.
Va – altresì - escluso che, in assenza della tempestiva impugnazione dell’atto lesivo, si possa chiedere al giudice amministrativo il risarcimento del danno previa disapplicazione dell’atto medesimo a’ sensi degli artt. 4 e 5 della L. 20 marzo 1865 n. 2248, all. E nel presupposto della sussistenza, nella specie, di una giurisdizione esclusiva con la conseguente esercitabilità, al riguardo, dei medesimi poteri propri del giudice ordinario.
A tale proposito va infatti evidenziato che, dai lavori preparatori del D.L.vo. 80 del 1998 e della L. 205 del 2000 non emerge alcuna volontà del legislatore di introdurre deroghe alla regola dell’onere di impugnare tempestivamente l’atto lesivo, ovvero di consentirne una sostanziale disapplicazione; né emerge una volontà del legislatore medesimo di incidere sulla posizione di un eventuale controinteressato consolidatasi con l’inoppugnabilità dell’atto lesivo e che - ove si affermasse la proponibilità della cd domanda “autonoma” rispetto a quella di annullamento già divenuta irricevibile - risulterebbe esposta all’esercizio di un potere di autotutela finalizzato al contenimento del danno risarcibile, e non già al perseguimento di un interesse pubblico e attuale.
Nè va sottaciuto che con la soluzione riaffermata dal Collegio non vulnera il principio di effettività della tutela, poiché la legge ben può sottoporre a termini di decadenza l’esercizio di azioni risarcitorie (come emerge, del resto, anche nel diritto civile, in cui - per in materia di comunione, di condominio e di quella società - sono contemplati termini di decadenza per impugnare atti di natura negoziale, il cui annullamento soltanto può giustificare una pretesa risarcitoria: cfr., ad es., artt. 1107, 1109 e 1137 c.c., rispettivamente riguardanti l’impugnazione del regolamento di comunione, delle deliberazioni assembleari dei partecipanti alla comunione e delle deliberazioni delle assemblee condominiali, nonché l’art. 2377c.c., in materia di impugnazione delle deliberazione adottate dalle assemblee dei soci di società per azioni, così come da ultimo sostituito per effetto dell’art. 5, lett. o), del D.L.vo 6 febbraio 2004 n. 37).
Va anche ribadito che il sistema di giustizia amministrativa risultava di per sè già coerente rispetto agli artt. 24, 28, 100 e 113 Cost. anche quando la tutela avverso l’atto autoritativo reputato lesivo consisteva nella possibilità di chiederne l’annullamento con l’ulteriore possibilità di chiedere il risarcimento del danno, arrecato alla posizione legittimante di diritto eventualmente preesistente, limitata al caso in cui il giudice amministrativo avesse impugnato l’atto lesivo medesimo; e che, a maggior ragione, va escluso che nell’attuale quadro normativo la regola della “pregiudizialità” – materialmente presupposta dal “sistema” sin qui descritto - contrasti con i testè richiamati articoli della Costituzione perché per le lesioni arrecate con l’atto autoritativo alle posizioni legittimanti di diritto è stata introdotta - in coerenza con le esigenze della più rapida definizione della lite - la concentrazione della tutela innanzi al giudice amministrativo, nel mentre per le lesioni arrecate agli interessi legittimi pretesivi, in cui non sono ravvisabili previe posizioni legittimanti di diritto, le riforme sopra richiamate hanno aggiunto al tradizionale rimedio dell’annullamento dell’atto lesivo il rimedio del risarcimento del danno, fermo peraltro restando – per tutto quanto detto innanzi - l’onere per l’interessato di attivarsi per evitare l’inoppugnabilità dell’atto.
Concludendo sul punto, il Collegio rimarca che il principio secondo il quale l’esercizio della pretesa risarcitoria fondata sull’affermata lesione di un interesse legittimo deve intendersi impedito a chi ha omesso di impugnare, nel termine decadenziale, il provvedimento amministrativo asseritamente produttivo del danno del quale domanda il ristoro, tutela sia la parte privata che in tal modo può sollecitamente accedere al rimedio giudiziale al fine di ottenere nella maggior parte dei casi il riconoscimento delle proprie ragioni in via diretta e non già per equivalente patrimoniale (comunque, in subordine,garantito), sia la pubblica amministrazione che – a sua volta, e soprattutto in dipendenza dei fini di interesse generale da essa perseguiti – necessita di certezza giuridica al fine di fondare la legittimità del suo operato, e senza che quest’ultimo - quindi – possa formare oggetto di contestazione entro i ben più lunghi termini di prescrizione (esigenza, questa, addirittura essenziale per le pubbliche amministrazioni che sono chiamate a svolgere funzioni che impongono celerità decisionali e, soprattutto, duratura permanenza degli effetti delle determinazioni assunte, proprio in quanto sottese agli interessi primari che intuitivamente assistono – tra l’altro – le esigenze della difesa nazionale e della tutela dell’ordine pubblico).
Se, come si è visto innanzi, lo stesso ordinamento giuridico sancisce l’inoppugnabilità degli atti delle assemblee dei partecipanti alle comunioni e ai condomini, oltrechè delle società per azioni, e ciò a tutela degli interessi collettivi perseguiti da tali aggregati sociali (dei quali, i prime due sono addirittura privi di personalità giuridica), non si vede dunque il motivo per il quale l’ordinamento non debba riconoscere una consimile tutela anche - e soprattutto - alle persone giuridiche pubbliche, in quanto titolari di interessi di indiscutibile maggior rilievo, ed in primis tra queste lo Stato.
Questa notazione di fondo pare al Collegio di solare evidenza, e sembra sufficiente per evidenziare il ben grave errore di coerenza nell’interpretazione del “sistema” nel quale sono purtroppo ricadute le predette tre ordinanze nn. 13659, 13660 e 13911 dd. 13 giugno 2006 rese dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
5.5. Va in ogni caso soggiunto che, ove pure si dovesse accedere - in esito ad una non augurabile persistenza dei sopradescritti orientamenti delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione - ad una possibilità di liquidazione del danno da interesse legittimo anche in mancanza di un’impugnazione in termini dell’atto che lo ha prodotto, l’esito del giudizio non potrebbe essere ragionevolmente favorevole per l’attuale ricorrente: e ciò in relazione alla valutazione, forzatamente negativa nei riguardi della posizione giuridica di tutti i ricorrenti in consimili ipotesi, di un elemento di fondo che si preannuncerebbe - per l’appunto - come costante in tutte le fattispecie omologhe alla presente.
Se è vero – infatti - che, a’ sensi dell’art. 2056 c.c., il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 del medesimo codice e che il primo comma di quest’ultimo articolo – recante la rubrica “concorso del fatto colposo del creditore” - dispone, a sua volta, che “se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate”, risulterebbe ben evidente che – sotto questo specifico profilo – proprio l’omessa impugnazione, da parte del xxxxx dei predetti provvedimenti autoritativi (certamente illegittimi, ma dalla cui rimozione ope iudicis sarebbe conseguito il pieno ripristino della posizione giuridica lesa), ha per certo aggravato il danno, rendendolo irreversibile>>.
Ultimo aggiornamento ( martedì 04 settembre 2007 )
 
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