di Ivone Cacciavillani. Le discussioni attuali sulla sorte della nostra professione richiamano alla mente vicende già accadute. A Venezia nel 1797, dopo il “tremendo zorno” del 12 maggio – quando il Maggior Consiglio consegnò la Serenissima a Napoleone – con la fine della Repubblica crollarono assetti secolari; ed anche l’Avvocatura fu al centro di disegni riformatori assai radicali.
L’AVVOCATURA A VENEZIA La fine della Repubblica e l’instaurazione delle Municipalità comportarono per Venezia una rivoluzione ben più marcata di quanto non sia avvenuto in tutte le altre Terre del Dominio. Ed in essa sorte del tutto particolare ebbe l’avvocatura Veneziana; né desti meraviglia che a Venezia sia esplosa un’avversione per la classe forense maggiore che nella altre Municipalità. Il fenomeno pare dovuto a due fattori concomitanti: dall’un parte, a Venezia i municipalisti scaltriti nella politica erano molto più numerosi che presso le altre Municipalità, perché nel regime aristocratico precedente nessun nobile, che non fosse incorso in condanne infamanti, poteva sottrarsi dal ricoprire almeno una volta nella vita qualche carica pubblica e non pochi municipalisti erano nobili a vario titolo delusi e animati da rancore verso il precedente regime. La minor dipendenza dei municipalisti dagli avvocati li rendeva più liberi di esporre la loro avversione verso questi ultimi; per converso gli avvocati veneziani avevano accumulato maggior mole di rancore nella stessa nobiltà, anche per la loro esosità e i conseguenti immensi guadagni. La disciplina dell’avvocatura formò oggetto di vivacissime dispute dell’Assemblea Municipale[1]. Secondo taluno, per cambiare la situazione in atto ritenuta inaccettabile, occorreva procedere all’”annientamento totale di un’intera categoria professionale che si era troppo compromessa con la sorti del regime aristocratico”; procedere alla “ridefinizione radicale degli assetti sociali, di cui uno dei passaggi essenziali consisteva nel superamento dei corpi intermedi che esercitavano una pesante tutela sulla vita associata”. Per raggiungere tale obiettivo occorreva per prima cosa eliminare l’intera categoria di quelli che venivano definiti “i sacerdoti del foro”. I rimedi più radicali vennero discussi nel giugno-luglio, durante l’elaborazione di quell’ Organizzazione provvisoria della giudicatura, che sarebbe stata approvata, come riordino generale della materia, il 10 luglio 1797. I punti principali discussi, comuni sia a tutti i tentativi di riforma di tutte le Municipalità sia all’attuale indilazionabile riordino dell’attività forense, erano anche allora pieni di contraddizioni. Dall’una parte si sosteneva la necessità di introdurre l”albo chiuso”, stabilire cioè un numero massimo di possibili appartenenti alla categoria (“come v’è un limite per la classe dei medici, de’ notai ecc., non vi deve essere diversa ragione anche per gli avvocati”); dall’altra parte, si sosteneva la necessità di abrogare “il principio del monopolio della cause da parte della classe forense”. Alla fine prevalse la tesi dell’abrogazione dell’ordine, essendosi stabilito che non poteva essere “impedito ad alcuno di potersi difendere da sé e col mezzo di quella persona in cui averà riposto la sua confidenza, tanto nella contestazione che nella trattazione delle cause”. Era opiniòne diffusa che “la presenza di questa pletorica categoria di professionisti, intriganti e venali, era dovuta alle complicazioni del precedente sistema giudiziario, caratterizzato da troppe leggi e soprattutto da troppe magistrature”[2]. Nella delibera del 10 luglio non sono mancate altre disposizioni strane; ad una sola basti accennare, analoga alle altre già ricordate, com’esse frutto della smania di neismo e dell’inesperienza di improvvisati riformatori. Venne creato un “Tribunale di censura”, col compito di cancellare dalle scritture degli avvocati le parti ritenute inconferenti col tema da decidere o comunque ridondanti, onde ai giudici “veri’ giungessero soltanto le parti delle difese veramente riferite all’oggetto della causa da decidere (fosse animosità verso avvocati verbosi o sfiducia per giudice sprovveduti)[3]. LE CONSEGUENZE DELLA SOPPRESSIONE E LA RICOSTITUZIONE Lo scioglimento dell’ordine non conseguì certo l’obiettivo perseguito, di liberalizzare l’esercizio della funzione di difensore e di facilitare l’assistenza dei litiganti. Ovviamente le cause continuarono e i contendenti continuavano a fare a gara per assicurarsi i migliori difensori, che erano gli avvocati più pratici e più noti. Con l’abrogazione della privativa dell’Ordine, le cause più importanti e più redditizie si concentrarono nelle mani dei più grandi e dei più famosi, col risultato pratico di emarginare numerosi buoni artigiani del foro, per incrementare i guadagni dei più noti e prolungare la durata dei processi per i rinvii frequentemente chiesti dai difensori per concomitanza di impegni. “Appare ovvio che le parti in causa, di fronte alla possibilità della scelta e allarmate dalla prospettiva che la parte avversa si avvalesse del patrocinio di un legale molto esperto e scaltro, per non soccombere in partenza, avrebbero avuto tutto l’interesse, se possibile, a ricorrere al valente oratore e al connesso armamentario dei suoi artifici”. Non può quindi far meraviglia che “un sommario esame di un certo numero di atti processuali relativi al periodo compreso fra il luglio e il novembre 1797 ci conferma che nella stragrande maggioranza i cittadini si avvalsero dell’opera di legali, qualche vota di amici o parenti (con prevalenza del coniuge in favore della moglie), rarissime le autodifese” La situazione non mutò nè con l’avvento della dominazione austriaca, che (caso forse unico) nulla innovò delle riforme giacobine, né dalla successiva dominazione francese (1805). Fu soltanto nel 1810 che venne ricostituito l’Ordine forense con solenne cerimonia, i cui atti e discorsi furono pubblicati nel 1811, Allocuzioni pronunciate alla R. Corte di Appello di Venezia per la solenne riapertura delle udienze e pel giuramento dell ‘Ordine degli Avvocati nell ‘anno MDCCCX. " (Tratto da Ivone Cacciavillani, Storia dell’Avvocatura Veneziana,pagg. 154-157, Corbo e Fiore Editori, Venezia 2001). |