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Il CdS CONFERMA ALCUNI PRINCIPI IN MATERIA DI PEREQUAZIONE PDF Stampa E-mail
giovedì 05 agosto 2010

Cons. Stato, Sez. IV, Sentenza n. 4545/2010

Cons. Stato, Sez. IV, Sentenza n. 216/2010

Tar Veneto, Sez. II, Sentenza n. 1270/2010

Tar Veneto, Sez. II, Sentenza n. 775/2010

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

sui seguenti ricorsi in appello:
1) nr. 2011 del 2010, proposto dal COMUNE DI ROMA, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Luigi D’Ottavi, Angela Raimondo e Nicola Sabato, domiciliato per legge in Roma presso l’Avvocatura Comunale, via del Tempio di Giove, 21,

contro

il signor Adriano CELLINI, rappresentato e difeso dagli avv.ti Giuseppe Lavitola e Fabrizio Zerboni, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via Costabella, 23,

nei confronti di

- REGIONE LAZIO, in persona del Presidente pro tempore, non costituita;
- PROVINCIA DI ROMA, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Riccardo Giovagnoli e Massimiliano Sieni, domiciliata per legge in Roma presso l’Avvocatura Provinciale, via IV Novembre, 119/A;



2) nr. 2602 del 2010, proposto dalla REGIONE LAZIO, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Sebastiano Capotorto ed Enrico Lorusso, con domicilio eletto presso il primo in Roma, piazza G. Mazzini, 27,

contro

il signor Adriano CELLINI, rappresentato e difeso dagli avv.ti Giuseppe Lavitola e Fabrizio Zerboni, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via Costabella, 23,

nei confronti di

- COMUNE DI ROMA, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Nicola Sabato, Angela Raimondo e Luigi D’Ottavi, domiciliato per legge in Roma presso l’Avvocatura Comunale, via del Tempio di Giove, 21;
- PROVINCIA DI ROMA, in persona del Presidente pro tempore, non costituita;

entrambi per l’annullamento e/o la riforma, previa sospensione cautelare,

della sentenza del T.A.R. del Lazio, Sezione Seconda, nr. 1524 del 4 febbraio 2010.


Visti i ricorsi in appello con i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’appellato signor Adriano Cellini (in entrambi i giudizi), della Provincia di Roma (nel giudizio nr. 2011 del 2010) e del Comune di Roma (nel giudizio nr. 2602 del 2010);

Visti gli appelli incidentali proposti dall’appellato signor Adriano Cellini nonché, nel giudizio nr. 2011 del 2010, dalla Provincia di Roma;

Viste le memorie prodotte dal Comune di Roma (in data 28 maggio 2010 in entrambi i giudizi), dalla Regione Lazio (in data 27 maggio 2010 nel giudizio nr. 2602 del 2010) e dall’appellato signor Cellini (in date 10 aprile 2010 e 28 maggio 2010 in entrambi i giudizi) a sostegno delle rispettive difese;

Vista l’ordinanza di questa Sezione nr. 1638 del 13 aprile 2010, con la quale sono state accolte le domande incidentali di sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore, all’udienza pubblica del giorno 8 giugno 2010, il Consigliere Raffaele Greco;

Uditi gli avv.ti D’Ottavi, Raimondo e Sabato per il Comune di Roma, l’avv. Lorusso per la Regione Lazio e gli avv.ti Lavitola e Zerboni per l’appellato signor Cellini;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

I – Il Comune di Roma ha impugnato, chiedendone la riforma previa sospensione dell’esecuzione, la sentenza con la quale il T.A.R. del Lazio, accogliendo parzialmente il ricorso proposto dal signor Adriano Cellini, ha annullato in alcune parti gli atti relativi all’adozione ed alla successiva approvazione del nuovo P.R.G. del Comune di Roma.

A sostegno dell’impugnazione, l’Amministrazione appellante ha dedotto:

1) erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui è stata respinta l’eccezione preliminare di irricevibilità per tardività del ricorso introduttivo;

2) erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui è stata respinta l’eccezione preliminare di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse all’impugnazione;

3) erroneità e contraddittorietà della motivazione; errata valutazione dei meccanismi perequativi in esame; violazione di legge (con riferimento all’avere il T.A.R. ritenuto in contrasto col principio di legalità e con lo statuto del diritto di proprietà gli istituti perequativi – cessione di aree e contributo straordinario – introdotti dal nuovo strumento urbanistico);

4) violazione dei principi e precetti delle disposizioni dettate dall’art. 1, commi 258 e 259, della legge 24 dicembre 2007, nr. 244, e dalla legge regionale 11 agosto 2009, nr. 21 (con riguardo all’avere il T.A.R. escluso che le predette disposizioni potessero costituire la base normativa per la previsione della cessione di aree);

5) insufficiente, contraddittoria ed erronea motivazione in ordine al negato carattere consensuale ed alternativo del sistema perequativo;

6) erroneità della decisione sotto il profilo della mancata considerazione dei principi di buon andamento ed imparzialità dell’Amministrazione, di trasparenza degli atti amministrativi;

7) erroneità della sentenza con riferimento al contributo straordinario di cui all’art. 18 (con riferimento all’avere il T.A.R. ritenuto trattarsi di corrispettivo di carattere patrimoniale imposto in violazione della riserva di legge di cui all’art. 23 Cost.).

Si è costituita la Provincia di Roma la quale, oltre ad associarsi all’appello principale e a chiederne l’accoglimento, ha a sua volta gravato in via incidentale la medesima sentenza, deducendo i vizi di omessa e insufficiente motivazione e di violazione dell’art. 11 della legge 7 agosto 1990, nr. 241.

Si è altresì costituito l’appellato signor Adriano Cellini il quale, oltre a opporsi con diffuse argomentazioni all’accoglimento degli appelli delle Amministrazioni suindicate, ha a sua volta proposto appello incidentale avverso la parte della sentenza che lo ha visto soccombente, deducendo con unico motivo i seguenti vizi: violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 97, 41 e 42 Cost., nonché dell’art. 16, comma 2, della legge 17 febbraio 1992, nr. 179, e degli artt. 3 e 4 della legge regionale del Lazio 26 giugno 1997, nr. 22, e s.m.i.; eccesso di potere per errore e falsità nei presupposti; illogicità e contraddittorietà manifesta; error in judicando; conseguente illegittimità; illegittimità dell’art. 53 delle N.T.A. del P.R.G., nonché degli artt. 14, 13 e 17 delle medesime N.T.A. per: a) violazione dell’art. 52 del decreto legislativo 31 marzo 1998, nr. 112, e degli artt. 117 e 118 Cost.; b) violazione del principio di legalità e del principio di nominatività e tipicità dei provvedimenti amministrativi; violazione dell’art. 16 della legge nr. 179 del 1992 e della l.r. nr. 22 del 1997 e s.m.i., ed in via generale della normativa tutta in materia di strumenti urbanistici attuativi; eccesso di potere per errore e falsità dei presupposti; illogicità e contraddittorietà manifeste.

II – Avverso la medesima sentenza del T.A.R. del Lazio ha proposto appello anche la Regione Lazio, sulla scorta dei seguenti motivi:

1) violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 97 e 118 Cost., degli artt. 1 e 11 della legge nr. 241 del 1990; eccesso di potere per errore e falsità dei presupposti; illiceità e contraddittorietà manifesta; error in judicando;

2) violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 97 e 118 Cost., degli artt. 1 e 11 della legge nr. 241 del 1990, dell’art. 2 della l.r. nr. 22 del 1997; eccesso di potere per errore e falsità dei presupposti; illiceità e contraddittorietà manifesta; error in judicando.

Si è costituito il Comune di Roma, associandosi all’appello dell’Amministrazione regionale e chiedendone l’accoglimento.

Anche in questo giudizio si è altresì costituito il signor Cellini, proponendo argomentazioni difensive analoghe a quelle impiegate per resistere all’appello del Comune e spiegando identico appello incidentale avverso la sentenza censurata.

III – All’esito della camera di consiglio del 13 aprile 2010, questa Sezione ha accolto le istanze di sospensione cautelare dell’esecuzione della sentenza impugnata.

All’udienza dell’8 giugno 2010, entrambe le cause sono state trattenute in decisione.

DIRITTO

1. In via del tutto preliminare, va disposta la riunione dei due appelli in epigrafe per evidenti ragioni di connessione, afferendo gli stessi alla medesima sentenza del T.A.R. del Lazio e avendo quindi a oggetto un unico giudizio di primo grado.

2. Per migliore comprensione delle statuizioni che seguiranno, è necessario premettere una sintetica ricostruzione della vicenda, amministrativa e processuale, per cui è causa.

Il signor Adriano Cellini ha impugnato dinanzi al T.A.R. del Lazio gli atti relativi all’adozione ed alla successiva approvazione del nuovo P.R.G. del Comune di Roma: egli è proprietario di un’area che nel previgente P.R.G. del 1965 risultava avere destinazione agricola, ricadendo in zona H, sottozona H1 (“Agro Romano”), mentre nel nuovo strumento urbanistico è stata suddivisa ricadendo in parte nel Parco di Vejo e per la parte residua nei c.d. “Tessuti prevalentemente residenziali” della “Città da ristrutturare. Ambito per i Programmi integrati”.

In tale ultima zona la disciplina urbanistica riviene dagli artt. 51, 52 e 53 delle N.T.A., alla cui stregua gli interventi edilizi sono assoggettati a Programma integrato di intervento (P.R.I.N.T.), come disciplinato dal precedente art. 14 delle medesime N.T.A.

In particolare, e per quanto qui interessa, per le aree ricadenti nella c.d. “Città da ristrutturare”, il citato art. 53 individua (comma 11) per le diverse categorie di suoli i differenti indici di fabbricabilità, sulla base delle destinazioni impresse ai suoli medesimi dal precedente P.R.G., prevedendo a fianco a di detti indici le quote di superficie “a disposizione del Comune ai sensi dell’art. 18” ovvero soggette “al contributo straordinario di cui all’art. 20”.

Tali ultime previsioni, negli intendimenti del Comune, dovrebbero servire a realizzare obiettivi di “perequazione urbanistica” secondo quello che l’art. 1, comma 2, delle medesime N.T.A. individua come uno dei criteri informatori del nuovo strumento urbanistico: in particolare, le due disposizioni richiamate dall’art. 53 si riferiscono agli “incentivi urbanistici” di cui, rispettivamente, alla lettera a) ed alla lettera b) del comma 2 dell’art. 17 delle N.T.A.

Nel primo caso, il proprietario può acquisire una quota aggiuntiva di superficie edificabile mettendone una quota maggioritaria a disposizione del Comune, affinché questo la utilizzi per finalità di interesse pubblico (riqualificazione urbana, tutela ambientale, edilizia con finalità sociali, servizi di livello urbano); nel secondo caso, invece, detta quota maggioritaria è soggetta al pagamento di un contributo finanziario straordinario, che il Comune utilizza per il finanziamento di opere e servizi pubblici in ambiti urbani degradati, con finalità di riqualificazione urbana.

Il T.A.R. del Lazio, dopo aver respinto le eccezioni preliminari di irricevibilità e inammissibilità del ricorso, ha dichiarato infondata la censura con la quale il ricorrente mirava a ottenere l’annullamento tout court dell’istituto del P.R.I.N.T., ritenendo tale piano attuativo, per come concretamente disciplinato dalle N.T.A. del nuovo P.R.G. di Roma, compatibile col modello generale di programma integrato di intervento di cui alla legge 17 febbraio 1992, nr. 179, e quindi non in contrasto col principio di tipicità degli strumenti urbanistici.

Il primo giudice ha, invece, considerato illegittime le specifiche previsioni innanzi richiamate in tema di cessione di aree al Comune e di contributo straordinario, ritenendo che le modalità in tal modo adottate per il perseguimento degli obiettivi di perequazione urbanistica (e finanziaria) violassero il principio di legalità; segnatamente, la cessione di aree realizzerebbe una forma larvata di ablazione della proprietà non trovante “copertura” normativa in alcuna espressa disposizione di legge (e quindi in violazione dello statuto del diritto di proprietà, e mediatamente dell’art. 42 Cost.), mentre il contributo straordinario integrerebbe un’imposizione patrimoniale, seppur di natura non tributaria, a sua volta in difetto di espressa previsione e quindi in violazione della riserva di legge ex art. 23 Cost.

3. Tutto ciò premesso, con un primo ordine di doglianze il Comune di Roma nel proprio appello reitera l’eccezione, respinta dal giudice di prime cure, di irricevibilità del ricorso introduttivo, sul rilievo che lo stesso è stato notificato oltre il sessantesimo giorno dalla pubblicazione sul B.U.R.L. dell’avviso di avvenuta approvazione del P.R.G.

Il motivo è infondato.

Ed invero, come correttamente rilevato dal primo giudice, in tema di impugnazione dei piani regolatori generali è orientamento giurisprudenziale consolidato che, nel sistema di pubblicità-notizia disciplinato dalla legislazione urbanistica nazionale e regionale nonché ai sensi dell’art. 124 del decreto legislativo 18 agosto 2000, nr. 267, il termine per l’impugnazione decorre dalla data di pubblicazione del decreto di approvazione o, comunque, al più tardi dall’ultimo giorno della pubblicazione all’albo pretorio dell’avviso di deposito presso gli uffici comunali dei documenti relativi al piano approvato, con la sola eccezione delle ipotesi che esso incida specificatamente, con effetti latamente espropriativi, su singoli determinati beni, nel cui caso solo è dovuta la notifica individuale ai proprietari interessati (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 giugno 2009, nr. 3730; Cons. Stato, sez. VI, 3 agosto 2007, nr. 4326; Cons. Stato, sez. V, 24 marzo 2006, nr. 1534; Cons. Stato, sez. IV, 10 agosto 2004, nr. 5510; id., 19 luglio 2004, nr. 5225; id., 8 luglio 2003, nr. 4040; id., 16 ottobre 2001, nr. 5467; C.g.a.r.s., 8 ottobre 2007, nr. 929).

Orbene, nel caso di specie il P.R.G. del Comune di Roma è stato approvato seguendo la speciale procedura disciplinata dall’art. 66 bis della legge regionale 22 dicembre 1999, nr. 38, e quindi all’esito di un accordo di pianificazione sottoscritto da Comune, Provincia e Regione e successivamente ratificato da ciascuna di dette Amministrazioni; tale procedura, invero, non contemplava espressamente la pubblicazione all’albo pretorio dell’avviso di deposito della documentazione relativa al piano approvato, tuttavia l’Amministrazione comunale ha ritenuto di darne notizia mediante pubblicazione sui quotidiani, applicando quindi quanto previsto, per i piani approvati in via “ordinaria”, dall’art. 33, comma 12, della stessa l.r. nr. 38 del 1999 (anch’esso non richiamato dal citato art. 66 bis).

Siffatta pubblicazione non può avere altra finalità che quella di realizzare una forma di pubblicità-notizia idonea a consentire a qualunque interessato di prendere visione della ridetta documentazione, sicché correttamente il primo giudice ha individuato in tale momento il dies a quo del termine di impugnazione, piuttosto che in quello della pubblicazione sul B.U.R.L. del (mero) avviso dell’avvenuta approvazione, cui il comma 9 del medesimo art. 66 bis ricollega la “efficacia” del P.R.G.

4. In ordine logico, occorre poi esaminare l’ulteriore censura – articolata sia nell’appello del Comune di Roma che in quello della Regione Lazio – con la quale è reiterata l’eccezione preliminare di inammissibilità del ricorso introduttivo, per carenza di interesse all’impugnazione in capo all’istante signor Cellini.

Più specificamente, viene contestato l’argomentare sulla cui base il T.A.R. capitolino ha ritenuto sussistente, in capo al ricorrente in primo grado, un interesse “strumentale” analogo a quello ormai da tempo individuato dalla giurisprudenza in capo ai partecipanti ai concorsi pubblici ed alle gare d’appalto, il cui contenuto si sostanzierebbe nell’interesse a nuove e più favorevoli determinazioni dell’Amministrazione in ordine alla destinazione urbanistica delle aree in proprietà del ricorrente, in sede di nuova attività di pianificazione conseguente all’auspicato annullamento delle prescrizioni di piano censurate.

Il motivo è infondato, dovendo confermarsi la reiezione dell’eccezione formulata dall’Amministrazione in prima istanza: tuttavia, la questione da essa evocata necessita di alcune precisazioni.

E difatti, la nozione di “interesse strumentale” accolta nella specie dal primo giudice, così come configurata, appare ambigua e suscettibile di eccessiva dilatazione, con pregiudizio dei fondamentali principi in materia di interesse a ricorrere, nella misura in cui sembra legittimare l’assunto che qualsiasi proprietario di suoli ricompresi nel perimetro del Comune interessato dal P.R.G. abbia interesse a impugnare le prescrizioni del piano medesimo, indipendentemente dalla loro concreta incidenza sul suolo in sua proprietà, in vista dell’ottenimento del risultato utile consistente nella ripetizione dell’attività pianificatoria, dalla quale potrebbero discendere determinazioni a lui più favorevoli.

Tuttavia, non v’è chi non veda come siffatta conclusione contraddica i consolidati principi in tema di attualità e concretezza dell’interesse che deve fondare l’impugnazione, autorizzando una sorta di legittimazione generalizzata all’impugnazione del P.R.G., legata alla semplice qualità di proprietari di suoli compresi nel territorio comunale, ad onta della natura di atto generale dello strumento urbanistico e indipendentemente da una immediata lesività delle sue prescrizioni.

Al riguardo, l’orientamento della Sezione è nel senso di considerare con molta attenzione possibili fughe dallo stretto collegamento al criterio dell’interesse: si è così osservato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 26 novembre 2009, nr. 7441) “…che il c.d. interesse strumentale alla rinnovazione della gara, riguardato nella sua oggettività, non è altro che un interesse al rispetto della legalità, che viene paludato da riferimenti soggettivi (utilità di ripetere la procedura che il ricorrente si propone di conseguire con la deduzione di vizi che, ove fondati, sono in grado di travolgere l’intera gara), al fine di accreditarne la valenza personale, che è un requisito necessario per poter promuovere un ricorso giurisdizionale”.

Deve, infatti, rimarcarsi, come fa la decisione citata, “…che provare di essere in condizione di trarre dall’esito favorevole del giudizio un’utilità non significa per nulla provare di essere titolari di una posizione legittimante. La verifica della sussistenza di una posizione legittimante, ai fini del preliminare accertamento della ammissibilità del ricorso, è in altri termini un’operazione che precede e per certi versi è indipendente dalla stima della utilità che il processo è in grado di assicurare”.

Ciò che, quindi, va ben tenuto presente è lo stretto legame tra l’utilità che si vuole conseguire con il processo e la legittimazione del soggetto ricorrente, al fine di evitare che siano ammessi come parti processuali anche i portatori di un interesse di mero fatto.

Peraltro, è del tutto evidente la profonda differenza esistente, sotto il profilo dell’interesse a ricorrere, tra l’impugnazione degli atti di una procedura concorsuale o selettiva e quella di uno strumento urbanistico generale: mentre nel primo caso il ricorrente mira al perseguimento di un’utilità (aggiudicazione dell’appalto o posizionamento utile in graduatoria) che l’Amministrazione ha attribuito ad altro soggetto o ad altri soggetti specificamente individuati, nell’ambito di una procedura competitiva la cui ripetizione è ex se suscettibile di formare oggetto di un interesse giuridicamente qualificato e differenziato, altrettanto non può dirsi per il secondo caso,

in cui l’interesse del proprietario non direttamente inciso dalle prescrizioni del P.R.G. alla rinnovazione della pianificazione non si differenzia da quello di quisque de populo ad un diverso assetto del territorio comunale (salva la sola ipotesi – comunque non ricorrente nella specie – di doglianze di carattere procedimentale suscettibili di travolgere l’intera procedura di formazione del piano, imponendone la rinnovazione ab initio).

Nel caso di specie, invero, l’interesse a impugnare in capo al signor Cellini è ancorato allo specifico regime urbanistico impresso dal nuovo P.R.G. al suolo in sua proprietà, e segnatamente a quella parte di esso che, avendo avuto in precedenza destinazione agricola, ricade oggi nella previsione dell’art. 53, comma 11, lettera c), delle N.T.A., con conseguente applicabilità di entrambi gli istituti perequativi cui si è sopra accennato (cessione di aree al Comune e contributo straordinario).

A fronte di tali rilievi, l’Amministrazione comunale obietta che sarebbe in ogni caso inconfigurabile un interesse alla rinnovazione delle determinazioni urbanistiche in parte qua, atteso che non sussisterebbe, neanche all’esito dell’annullamento disposto dal T.A.R., alcun obbligo del Comune di rivedere le determinazioni censurate, potendo l’Amministrazione limitarsi a eliminare dalle N.T.A. le previsioni dei menzionati istituti perequativi, lasciando per il resto inalterate le prescrizioni del P.R.G.: dal che, con ogni evidenza, il ricorrente non trarrebbe alcuna utilità.

Ad avviso della Sezione, l’approfondimento di tale punto presuppone l’accertamento dell’esatta natura giuridica dei ridetti istituti perequativi, se cioè essi effettivamente realizzino – come assume l’odierno appellato – una larvata ablazione della proprietà attraverso la sottrazione della capacità edificatoria attribuita ai titolari dei suoli interessati: questione, quest’ultima, il cui approfondimento costituisce il presupposto dell’esame nel merito dei vizi di legittimità individuati dal primo giudice, la cui sussistenza è negata dalle Amministrazioni appellanti con ulteriori motivi di impugnazione.

Pertanto, su tale ulteriore profilo si tornerà appresso, nell’ambito dell’esame del merito degli appelli.

5. Sempre procedendo in ordine logico, occorre adesso esaminare gli appelli incidentali proposti dal signor Cellini, con i quali sono riproposte le censure articolate in primo grado avverso la disciplina del P.R.I.N.T. contenuta nelle N.T.A.

In estrema sintesi, parte appellante incidentale reitera la censura di violazione del principio di tipicità e nominatività degli strumenti urbanistici, ribadendo l’estraneità del P.R.I.N.T. siccome regolato dalle N.T.A. del nuovo P.R.G. rispetto al modello generale di programma integrato di intervento di cui all’art. 16 della legge 17 febbraio 1992, nr. 179, e dalla legge regionale del Lazio 26 giugno 1997, nr. 22 (sotto il profilo sia dei contenuti che delle modalità di formazione); inoltre, viene riproposta e ulteriormente sviluppata l’eccezione subordinata di incostituzionalità della testé citata normativa nazionale e regionale per asserita violazione degli artt. 3 e 97, 41 e 42, comma 2, Cost.

Dette doglianze sono infondate, dovendo trovare piena condivisione le conclusioni raggiunte dal primo giudice su di esse.

5.1. Cominciando dal principio di tipicità e nominatività degli strumenti urbanistici, lo stesso, che discende dal più generale principio di legalità e di tipicità degli atti amministrativi, è espresso dalla giurisprudenza nel senso dell’impossibilità per l’Amministrazione di dotarsi di piani urbanistici i quali, per “nome, causa e contenuto”, si discostino dal numerus clausus previsto dalla legge (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. II, 10 dicembre 2003, parere nr. 454; Cons. Stato, sez. IV, 7 novembre 2001, nr. 5721).

Tale assunto può certamente essere confermato in questa sede, con l’importante precisazione che – specie dopo la modifica costituzionale del Titolo V, con l’attribuzione alla competenza concorrente della materia del “governo del territorio” – il modello legale rispetto al quale verificare il rispetto del richiamato principio va ricavato sia dalla normativa nazionale che da quella regionale.

Ciò premesso, è la stessa evidenziata ratio del principio a consentire all’Amministrazione comunale di introdurre varianti e modifiche nella disciplina di dettaglio degli strumenti urbanistici, a condizione che ciò non comporti una deviazione di essi dal modello legale rispetto alla “causa” (ossia alla loro funzione tipica quale individuata dal legislatore) ovvero al “contenuto” (ossia a quello che dovrebbe essere l’oggetto dell’attività di pianificazione, sempre alla stregua del dato normativo di riferimento); tale facoltà trova il proprio fondamento, a livello costituzionale, nell’ultimo comma dell’art. 117 Cost., laddove ai Comuni è attribuita la potestà regolamentare nelle materie di loro competenza.

Ne consegue che è corretto l’approccio ermeneutico del giudice di primo grado, il quale ha inteso verificare se, ad onta della comunanza del nomen, non fossero ravvisabili nella disciplina del P.R.I.N.T. ex art. 14 delle N.T.A. quelle significative deviazioni a livello funzionale e contenutistico che, sole, possono costituire elemento rivelatore della violazione dei richiamati principi di tipicità e nominatività.

Orbene, sotto il primo profilo il T.A.R. ha giustamente sottolineato la “polifunzionalità” dello strumento de quo, ossia la sua idoneità a realizzare una pluralità di funzioni, coordinando interventi pubblici e privati e integrando diverse tipologie di interventi, tali da ricomprendere non solo l’edificazione privata ma anche la realizzazione di opere di urbanizzazione e infrastrutture, in modo da perseguire l’obiettivo di un più razionale impiego e sviluppo del territorio; tale dato, evincibile sia dall’art. 16, comma 1, della legge nr. 179 del 1992 che dagli artt. 1 e 2 della l.r. nr. 22 del 1997, è coerente con la finalità che le N.T.A. assegnano al P.R.I.N.T., laddove si precisa che esso serve a “sollecitare, coordinare e integrare soggetti, finanziamenti, interventi pubblici e privati, diretti e indiretti”, in modo da “favorire l’integrazione degli interventi, la qualità urbana e ambientale, e il finanziamento privato delle opere pubbliche” (art. 14, comma 1).

D’altra parte, la circostanza che il programma d’intervento già nella sua stessa costruzione normativa si connoti per il fatto di ricomprendere finalità e interventi di regola riconducibili a diverse tipologie di pianificazione e di impiego del territorio (come evidente dallo stesso uso dell’attributo “integrato”) ne fa uno strumento per sua natura flessibile e suscettibile di adattamento in ragione delle specifiche esigenze e caratteristiche del territorio del singolo Comune pianificatore.

In tale prospettiva va condotta anche la comparazione sotto il profilo contenutistico tra le previsioni delle N.T.A. qui censurate e quelle legislative: al riguardo, è del tutto condivisibile l’avviso del primo giudice, che ha reputato la previsione di cui all’art. 14, comma 3, delle ridette N.T.A. sostanzialmente sovrapponibile a quella generale di cui all’art. 2, commi 3, 4 e 5 della l.r. nr. 22 del 1997 (che costituisce il parametro normativo di riferimento per i programmi in questione nella Regione Lazio).

In particolare – e per accostarsi a quello che è, poi, il vero nucleo delle doglianze articolate dal ricorrente in primo grado – va condivisa anche la conclusione secondo cui, alla stregua di quelle che si è visto essere le molteplici finalità dello strumento de quo, non può essere tacciata di anomalia né di “eccentricità” la previsione all’interno di esso di strumenti perequativi del tipo di quelli cui si è più sopra accennato.

5.2. Alla luce dei rilievi che precedono, non può che concludersi nel senso dell’infondatezza – come già ritenuto dal primo giudice – anche delle più puntuali e specifiche censure, inerenti alla disciplina dei contenuti e dell’iter formativo del P.R.I.N.T., che l’appellante incidentale ha reiterato nel presente grado di appello.

In particolare:

- non è illegittimo che il Programma in questione abbia a oggetto l’intero sistema insediativo anziché le sole zone degradate, essendo ormai pacifico in giurisprudenza che – proprio in considerazione della sua pluralità di funzioni – tale strumento possa essere asservito anche a finalità ulteriori oltre a quella, che ne costituisce la ragion d’essere, della riqualificazione del tessuto urbano degradato (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16 giugno 2008, nr. 2985; id., 22 giugno 2006, nr. 3889);

- non risulta disattesa la previsione normativa che attribuisce anche ai privati l’iniziativa della presentazione del programma, atteso che l’intervento privato è espressamente previsto non solo in caso di inerzia dell’Amministrazione comunale, ma anche in funzione “sollecitatoria” dell’iniziativa della stessa (ciò, come ben sottolineato dal T.A.R., all’evidente fine di conservare al Comune la generale responsabilità della pianificazione e al tempo stesso garantire un miglior coordinamento tra iniziativa privata e potestà pubblica);

- il “programma preliminare” previsto dall’art. 14, comma 4, lettera a), delle N.T.A. non è uno strumento urbanistico autonomo e atipico, ma un mero passaggio endoprocedimentale che il Comune, nell’esercizio della propria autonomia nel regolare l’iter formativo del P.R.I.N.T., ha inteso legittimamente introdurre.

5.3. In linea subordinata, parte appellante incidentale assume l’incostituzionalità in radice delle stesse previsioni normative nazionali e regionali in tema di programmi integrati di intervento, ove interpretabili – così come nella specie avvenuto – nel senso di trasformare tali strumenti nella modalità principale di attuazione del P.R.G.

L’eccezione è supportata dal richiamo a taluni passaggi della sentenza con la quale la Corte Costituzionale, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dei commi da 3 a 7 dell’art. 16 della legge nr. 179 del 1992, evidenziò come dalla disciplina generale del nuovo strumento urbanistico emergessero incertezze e ambiguità in ordine ai suoi obiettivi, nonché ai suoi rapporti e limiti rispertto ad altri strumenti di settore, quali i piani di coordinamento e quelli paesistici (cfr. sent. 19 ottobre 1992, nr. 393).

La tesi dell’appellante incidentale è che su tali aspetti la Corte non poté intervenire all’epoca, essendo investita unicamente di un conflitto di competenze tra Stato e Regioni e non spiegando le evidenziate incertezze alcuna rilevanza al riguardo, ma che dai passaggi motivazionali riportati sarebbe chiaramente evincibile l’affermazione della incostituzionalità della stessa disciplina generale dei programmi integrati di intervento, per violazione degli artt. 3 e 97 Cost. (oltre che degli artt. 41 e 42 Cost.).

La Sezione reputa però l’eccezione manifestamente infondata.

Ed invero, l’affermazione della irragionevolezza e della contrarietà ai principi costituzionali di buon andamento della p.a. non può ricavarsi da un obiter dictum della Corte Costituzionale, senza peraltro specificare per quali aspetti la previsione della connotazione “polifunzionale” dei programmi integrati di intervento sarebbe violativa di detti principi (al contrario, essa appare prima facie idonea a garantire risultati di maggiore efficienza e di più equilibrato impiego e sviluppo del territorio, attraverso l’apporto sinergico delle risorse private e della potestà pubblica).

In realtà, l’assunto cui l’eccezione è ancorata è, ancora una volta, quello di una pretesa “eccentricità” del programma de quo rispetto agli strumenti urbanistici tradizionali, con ciò riproponendosi, stavolta sotto il profilo dell’asserito contrasto tra fonti normative, la doglianza di violazione del principio di tipicità degli strumenti urbanistici: tuttavia, è quanto meno dubbio che tale principio possa individuarsi a livello costituzionale in maniera così pregnante da escludere che il legislatore possa, nell’esercizio di quella che la stessa Corte ha definito la sua “discrezionalità”, prevedere e disciplinare uno strumento urbanistico che riassuma e integri in sé le finalità di altri e diversi strumenti.

Quanto poi all’asserita violazione degli artt. 41 e 42 Cost., è agevole replicare che entrambi i diritti da questi tutelati (proprietà e iniziativa economica privata) possono subire, nella visione dello stesso costituente, limitazioni per ragioni di utilità sociale: nella specie, è evidente che la conformazione della proprietà privata e l’assoggettamento dell’iniziativa pianificatoria privata a limiti e condizioni discende dall’interesse pubblico connesso alla generale potestà di governo del territorio attribuita al soggetto pubblico.

5.4. Sulla scorta delle considerazioni appena svolte, si impone dunque l’integrale reiezione degli appelli incidentali proposti dal signor Adriano Cellini.

6. A questo punto, può passarsi all’esame dei motivi degli appelli principali, nonché dell’appello incidentale spiegato dalla Provincia di Roma, con i quali viene contestato il merito delle statuizioni del primo giudice con riferimento alla ritenuta illegittimità degli istituti perequativi della cessione di aree e del contributo straordinario, per come disciplinati dalle N.T.A. del nuovo P.R.G. capitolino.

Come già accennato, il T.A.R. ha ritenuto che i predetti istituti, pur perseguendo finalità perequative apprezzabili anche sotto il profilo dell’interesse pubblico a una più completa ed equilibrata gestione del territorio, violassero il principio di legalità in quanto non supportati da specifica e adeguata previsione normativa: in particolare, la cessione di aree realizzerebbe una sottrazione forzosa di edificabilità ai suoli privati al di fuori degli schemi tipici delle procedure ablatorie, mentre il contributo straordinario integrerebbe un’imposizione patrimoniale, sia pure di natura corrispettiva e non tributaria, anch’essa in difetto di espressa previsione di legge.

Tuttavia, la Sezione reputa fondati gli argomenti svolti dalle parti appellanti a confutazione di tale conclusione, e conseguentemente meritevoli di accoglimento gli appelli proposti dalle Amministrazioni resistenti in primo grado.

7. Al riguardo, può fin d’ora anticiparsi – con riserva delle più analitiche considerazioni che saranno di seguito svolte – che la legittimità della censurata disciplina perequativa delle N.T.A. si regge su due pilastri fondamentali, entrambi ben noti al nostro ordinamento: da un lato, la potestà conformativa del territorio di cui l’Amministrazione è titolare nell’esercizio della propria attività di pianificazione; dall’altro, la possibilità di ricorrere a modelli privatistici e consensuali per il perseguimento di finalità di pubblico interesse.

7.1. Per chiarire le ragioni che inducono la Sezione a tale conclusione, conviene muovere da un esatto inquadramento del contenuto e della portata delle prescrizioni urbanistiche de quibus, al fine di verificare la condivisibilità delle sopra riassunte affermazioni del primo giudice in ordine alla non riconducibilità delle stesse a istituti o previsioni già noti al nostro ordinamento.

Ebbene, e per principiare dalla cessione di aree disciplinata dalla cessione di aree, un sereno esame del concreto meccanismo di operatività dell’istituto in questione consente di escludere che con lo stesso il Comune abbia introdotto prescrizioni idonee a incidere direttamente e immediatamente sullo statuto della proprietà, in modo da realizzare l’ipotizzata violazione dell’art. 42 Cost.

Sul punto, è importante sottolineare la circostanza su cui insistono le Amministrazioni appellanti, e che non risulta contestata né smentita ex adverso, secondo cui il nuovo P.R.G., nel procedere alla ricognizione delle aree la cui destinazione comporterà l’applicabilità dei nuovi istituti perequativi, ha in partenza confermato gli indici di fabbricabilità sulle stesse previsti dalla disciplina urbanistica previgente, di tal che le nuove previsioni vanno ad affiancarsi, integrandolo, a un assetto sostanzialmente confermativo di quello preesistente.

In siffatta situazione appare evidente che, laddove l’Amministrazione avesse omesso di introdurre tali innovative prescrizioni e si fosse limitata a confermare gli indici preesistenti, i proprietari interessati non avrebbero potuto eccepire alcunché a fronte di una tale modalità di esercizio dell’ampia discrezionalità che – come è noto – connota le scelte in materia di pianificazione del territorio, non potendo certo vantare alcuna legittima aspettativa a un regime più favorevole (è discutibile, invero, che un’aspettativa del genere sarebbe sussistita anche in caso di modifica in pejus rispetto agli indici preesistenti, ma trattasi di ipotesi che in questa sede non è necessario esaminare).

Il dato appena evidenziato, come correttamente rappresentato dalle Amministrazioni appellanti, rende la vicenda per cui è causa tutt’affatto diversa da quella su cui è intervenuto il precedente di questa Sezione invocato dal ricorrente in primo grado (sent. nr. 4833 del 21 agosto 2006), laddove la riserva alla “mano pubblica” di una quota di superficie era ottenuta incidendo sulla totalità della capacità edificatoria dei suoli, ivi compresa quella in atto già da questi posseduta, in tal modo effettivamente realizzandosi una forma larvata di esproprio.

Nel caso di specie, invece, la previsione della cessione al Comune di una quota di edificabilità viene introdotta de futuro, in stretta correlazione con la previsione di una quota di edificabilità aggiuntiva di cui il proprietario potrà fruire consentendo – appunto – alla cessione di parte di essa; analogamente, a norma dell’art. 20 delle N.T.A., il proprietario del suolo potrà fruire di ulteriore edificabilità corrispondendo un contributo straordinario predeterminato ex ante.

In altri termini, il pianificatore in questo caso, dopo aver proceduto alla fase “statica” dell’assegnazione a ciascuna zona della propria destinazione urbanistica e dei relativi indici di edificabilità, ha inteso conferire al P.R.G. anche una dimensione “dinamica”, idonea a prevedere la possibile evoluzione futura dell’assetto del territorio comunale: in tale prospettive, per quanto concerne la realizzazione di opere pubbliche, urbanizzazioni e infrastrutture, in aggiunta e in alternativa all’imposizione di vincoli su specifici suoli finalizzati a future espropriazioni, per il reperimento dei suoli e delle risorse necessarie sono stati introdotti i meccanismi appena descritti.

7.2. Incidentalmente, il fatto che le innovative prescrizioni oggetto del presente contenzioso incidano non su edificabilità “riconosciuta” ai titolari dei suoli (come assume l’appellato signor Cellini), ma su una quota di edificabilità futura ed eventuale rispetto a quella immediatamente e attualmente attribuita ai suoli stessi dallo strumento urbanistico, rende tutt’altro che infondata l’eccezione di carenza di interesse all’impugnazione che l’Amministrazione comunale ha sollevato fin dal primo grado.

Infatti, una volta acclarato che l’odierno appellato non ha subito alcuna menomazione rispetto alla destinazione impressa al suolo in sua proprietà dal previgente P.R.G. (e tale dato fattuale è in re ipsa, atteso che in precedenza detto suolo era interamente assoggettato a destinazione agricola), non si comprende quale utilità egli si riprometta di conseguire con l’annullamento di prescrizioni destinate a incidere su una edificabilità aggiuntiva futura ed eventuale: ché se l’utilità auspicata consistesse nel riconoscimento illico et immediate di tale edificabilità aggiuntiva, e quindi nell’aumento sic et simpliciter dell’indice di edificabilità del suolo, è evidente che tale pretesa si scontrerebbe con quanto più sopra osservato – e corrispondente a pacifica giurisprudenza – in ordine all’ampia discrezionalità che connota le scelte pianificatorie, a fronte delle quali il privato non può mai vantare (salvo ipotesi eccezionali che in questo caso non ricorrono) un’aspettativa giuridicamente qualificata a un regime urbanistico più favorevole.

7.3. Così correttamente ricostruita la portata delle previsioni urbanistiche oggetto di censura nel presente giudizio, occorre ora verificare se le stesse esorbitino i limiti del potere conformativo spettante all’Amministrazione nella propria attività di pianificazione del territorio.

Con riguardo a tale potere, è noto che esso è stato da tempo individuato dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale come espressione della potestà amministrativa di governo del territorio, alla quale è connaturata la facoltà di porre condizioni e limiti al godimento del diritto di proprietà non di singoli individui, ma di intere categorie e tipologie di immobili identificati in termini generali e astratti; in particolare la Corte ha escluso che potessero qualificarsi in termini di vincolo espropriativo tutte le condizioni e i limiti che possono essere imposti ai suoli in conseguenza della loro specifica destinazione (ivi compresi i limiti di cubatura connessi agli indici di fabbricabilità previsti dal P.R.G. per le varie categorie di zone in cui il territorio viene suddiviso), e – a maggior ragione – ha negato carattere ablatorio a quei vincoli (c.d. “conformativi”) attraverso i quali, seppure la proprietà viene asservita al perseguimento di obiettivi di interesse generale quali la realizzazione di opere pubbliche o infrastrutture, non è escluso che la realizzazione di tali interventi possa avvenire ad iniziativa privata o mista pubblico-privata, e comunque la concreta disciplina impressa al suolo non comporti il totale svuotamento di ogni sua vocazione edificatoria (cfr., fra le tante, la sent. nr. 179 del 20 maggio 1999).

Se tutto questo è vero, non occorre approfondire la questione teorica del rapporto fra il governo del territorio (nel senso appena precisato) e lo statuto civilistico del diritto di proprietà, per rendersi conto di come l’operazione condotta dal Comune di Roma attraverso i ricordati meccanismi perequativi connessi all’attribuzione de futuro ai suoli di una cubatura aggiuntiva, lungi dal costituire un anomalo “ibrido” tra conformazione ed espropriazione come ritenuto dal primo giudice, rientri a pieno titolo nel legittimo esercizio della potestà pianificatoria e conformativa del territorio.

Ed infatti ciò che l’Amministrazione ha fatto, in sostanza, è in primo luogo attribuire ai suoli un determinato indice di edificabilità (nella specie corrispondente a quello già posseduto sotto il vigore del precedente P.R.G.), ciò che pacificamente non travalica l’ordinario esercizio del potere di pianificazione; di poi, nella già evidenziata prospettiva “dinamica”, ha proceduto a porre le basi per possibili incrementi futuri della cubatura edificabile, predisponendo i meccanismi con i quali questa potrà essere riconosciuta ai vari suoli, in ragione della loro zonizzazione e tipologia.

La disciplina impressa ai suoli attraverso i due momenti pianificatori testé indicati, con tutta evidenza, non può in alcun modo essere ritenuta tale da integrare una sostanziale ablazione della proprietà né una surrettizia sottrazione di volumetrie le quali, in assenza delle previsioni perequative, sarebbero state edificabili: al riguardo la Sezione, pur concordando con quanto rilevato dal giudice di prime cure circa la non necessità, ai fini che qui interessano, di approfondire l’ulteriore questione teorica dell’immanenza o meno dello jus aedificandi al diritto di proprietà, non può esimersi dall’osservare come sia proprio l’impostazione della parte odierna appellata a risentire di una concezione che presuppone tale immanenza in termini così “radicali” da risultare inaccettabili.

Infatti, nel ricorso introduttivo e negli scritti difensivi del signor Cellini si assume, in estrema sintesi, che la previsione della cessione al Comune di una quota della cubatura aggiuntiva attribuita dal Piano integrerebbe una forma larvata di esproprio, in quanto intaccherebbe la vocazione edificatoria che è connaturata e immanente al diritto di proprietà; tuttavia l’argomento prova troppo, atteso che, se lo statuto della proprietà dovesse considerarsi leso dalla limitazione dello jus aedificandi su una cubatura la cui edificabilità è prevista dal P.R.G. solo in via futura ed eventuale, a fortiori ciò dovrebbe ritenersi per le limitazioni immediate e attuali discendenti dalle prescrizioni del Piano, col risultato di considerere inammissibili le stesse previsioni di indici di edificabilità e le connesse limitazioni della volumetria edificabile rispetto all’estensione dei suoli: ciò che, comportando il sostanziale svuotamento della potestà conformativa del territorio in capo all’Amministrazione, non appare certamente in linea con gli arresti giurisprudenziali, anche costituzionali, che si sono più sopra richiamati.

7.4. Una volta evidenziato come le prescrizioni urbanistiche all’esame risultino in linea con una moderna concezione della potestà conformativa riconosciuta all’Amministrazione nella propria attività di pianificazione del territorio, occorre soffermarsi sulle particolari modalità con le quali le N.T.A. dispongono debba avvenire la perequazione urbanistica e finanziaria, allorquando troveranno applicazione i richiamati istituti della cessione di volumetrie al Comune e del contributo straordinario: al riguardo, viene in rilievo quello che si è anticipato essere il secondo dei pilastri su cui si reggono le innovative previsioni del P.R.G. capitolino, e cioè il ricorso a strumenti negoziali e consensuali per il perseguimento di obiettivi di pubblico interesse.

Sul punto, occorre preliminarmente sgombrare il campo da un equivoco interpretativo evidente nelle deduzioni di parte appellata, laddove si insiste sul richiamo all’art. 13 della legge 7 agosto 1990, nr. 241, assumendo che l’inapplicabilità agli atti generali e di pianificazione della disciplina generale in materia di partecipazione del privato all’attività procedimentale (ivi compresa quella in tema di accordi ex art. 11 della stessa legge nr. 241 del 1990) osterebbe alla praticabilità dei meccanismi consensuali predisposti dalle N.T.A.

Al contrario, alla Sezione appare evidente che la fattispecie qui all’esame non è connotata affatto da una sostituzione della pianificazione generale con moduli convenzionali: infatti, il P.R.G. del Comune di Roma esiste certamente come atto provvedimentale e autoritativo, essendo stato approvato all’esito di un procedimento di carattere pubblicistico interamente promosso e gestito dall’Amministrazione pianificatrice (ancorché soggetto a disciplina speciale sulla base del già citato art. 66 bis della l.r. nr. 22 del 1997); mentre gli strumenti privatistici e consensuali sono destinati a intervenire nella fase attuativa delle prescrizioni poste dal Piano e anzi, a ben vedere, la previsione di un ulteriore strumento attuativo rimesso alla responsabilità (se non all’iniziativa) pubblica, quale si è visto essere il P.R.I.N.T., garantisce che i predetti strumenti convenzionali sopravverrano nella fase strettamente esecutiva, al livello delle singole specifiche aree, sostituendosi semmai a procedure espropriative o comunque realizzative di singole opere pubbliche, piuttosto che a una vera e propria attività pianificatoria.

D’altra parte, il ricorso a moduli convenzionali nella fase della pianificazione attuativa del P.R.G. non è certo ignoto all’esperienza del nostro ordinamento (basti pensare alle convenzioni di lottizzazione); e d’altra parte si è visto come lo stesso odierno appellato abbia lamentato, seppur infondatamente, l’illegittimità della disciplina del P.R.I.N.T. in quanto a suo dire limitatrice dell’iniziativa privata nell’adozione del programma integrato d’intervento.

Tuttavia, nel caso di specie il richiamo più pertinente è forse quello agli accordi sostitutivi dell’espropriazione di cui all’art. 45 del d.P.R. 8 giugno 2001, nr. 327, che costituiscono proprio una applicazione, alla particolare materia dell’ablazione della proprietà privata per la realizzazione di opere pubbliche, del generale principio dell’utilizzabilità di modelli negoziali per il perseguimento di scopi di pubblico interesse.

7.5. Più in generale, la Sezione reputa che la “copertura” normativa alla previsione dei più volte richiamati strumenti consensuali per il perseguimento di finalità perequative (e ciò vale sia per la cessione di aree che per il contributo straordinario) vada individuata, come correttamente evidenziato dall’Amministrazione regionale nel proprio appello, nel combinato disposto degli artt. 1, comma 1 bis, e 11 della già citata legge nr. 241 del 1990.

Ed invero, ad avviso della dottrina e della giurisprudenza maggioritarie, con la “novella” del 2005 il legislatore ha optato per una piena e assoluta fungibilità dello strumento consensuale rispetto a quello autoritativo, sul presupposto della maggiore idoneità del primo al perseguimento degli obiettivi di pubblico interesse.

Non è certo questa la sede per verificare la validità e la condivisibilità di siffatto assunto teorico: ciò che conta è che oggi, essendo venuta meno la previgente riserva alla legge dei casi in cui alle amministrazioni è consentito ricorrere ad accordi in sostituzione di provvedimenti autoritativi, tale possibilità deve ritenersi sempre e comunque sussistente (salvi i casi di espresso divieto normativo); col che, secondo l’opinione preferibile, non è stato affatto introdotto il principio della atipicità degli strumenti consensuali in contrapposizione a quello di tipicità e nominatività dei provvedimenti, atteso che lo strumento convenzionale dovrà pur sempre prendere il posto di un provvedimento autoritativo individuato fra quelli “tipici” disciplinati dalla legge: a garanzia del rispetto di tale limite, lo stesso art. 11 innanzi citato prevede l’obbligo di una previa determinazione amministrativa che anticipi e legittimi il ricorso allo strumento dell’accordo.

Pertanto, nel caso di specie l’Amministrazione altro non ha fatto – lo si ribadisce - che predeterminare le condizioni alle quali potranno attivarsi i ridetti meccanismi convenzionali, solo se e quando i proprietari interessati ritengano di voler avvalersi degli incentivi cui sono collegati (e, cioè, di voler fruire della volumetria aggiuntiva assegnata ai loro suoli dal P.R.G.); ove ciò non avvenga, il Comune che fosse interessato alla realizzazione di opere di urbanizzazione e infrastrutture dovrà attivarsi con gli strumenti tradizionali all’uopo predisposti dall’ordinamento, in primis le procedure espropriative (naturalmente, se del caso, previa localizzazione delle aree su cui operare gli interventi e formale imposizione di vincoli preordinati all’esproprio con apposita variante urbanistica).

È proprio la natura “facoltativa” degli istituti perequativi de quibus, nel senso che la loro applicazione è rimessa a una libera scelta degli interessati, a escludere che negli stessi possa ravvisarsi una forzosa ablazione della proprietà nonché, nel caso del contributo straordinario, che si tratti di prestazione patrimoniale imposta in violazione della riserva di legge ex art. 23 Cost.

7.6. La parte odierna appellata obietta, al riguardo, che la detta “facoltatività” dovrebbe essere esclusa nella specie, a cagione della predeterminazione autoritativa, a livello delle stesse N.T.A. del P.R.G. e quindi in via generale e astratta, dei contenuti essenziali degli accordi che l’Amministrazione e i privati andaranno a concludere (e, segnatamente, dell’entità delle cubature da cedere al Comune e della misura del contributo straordinario).

A tale rilievo, però, è agevole replicare che siffatta predeterminazione è coerente con l’interesse pubblico al cui perseguimento, giusta il citato art. 11 della legge nr. 241 del 1990, gli accordi in questione sono finalizzati: a tale interesse invero, proprio in quanto ricomprende gli obiettivi perequativi più volte richiamati, è intrinsecamente connessa l’esigenza di garantire la par condicio fra i privati proprietari di suoli soggetti a eguale disciplina urbanistica, esigenza che all’evidenza sarebbe frustrata qualora fosse rimesso integralmente al momento della contrattazione privata – quasi che questa fosse espressione di mera autonomia privata, e non coinvolgesse invece interessi di rilevanza pubblicistica - la definizione dei termini e delle modalità della “contropartita” che ciascun privato dovrà assicurare all’Amministrazione in cambio della volumetria edificabile aggiuntiva riconosciutagli dal Piano.

7.7. Dalle considerazioni fin qui svolte risulta anche alquanto ridimensionata l’ulteriore questione di quali siano le specifiche disposizioni di legge (nazionale o regionale) individuabili quale “copertura” legislativa delle prescrizioni urbanistiche oggetto del presente contenzioso: si è visto, infatti, che queste ultime trovano il proprio fondamento in principi ben radicati nel nostro ordinamento, con riguardo da un lato al potere pianificatorio e di governo del territorio (quale disciplinato dalla legislazione urbanistica fin dalla legge 17 agosto 1942, nr. 1150) e dall’altro alla facoltà di stipulare accordi sostitutivi di provvedimenti.

Il fatto, poi, che si tratti di principi affermati nella legislazione nazionale consente di escludere in radice ogni lesione – pure ipotizzata dall’odierno appellato – delle prerogative statali in materia: infatti, è evidente che l’intera operazione posta in essere dal Comune di Roma con il varo del nuovo P.R.G. appare rispettosa dei limiti posti dalla legislazione statale (sia esclusiva ex art. 117, comma 2, lettera m), Cost. che concorrente in materia di governo del territorio) alla potestà regolamentare riconosciuta ai Comuni nelle materia di propria competenza dall’ultimo comma dello stesso art. 117 Cost.

Con ciò non si intende disconoscere l’opportunità che lo Stato intervenga a disciplinare in maniera chiara ed esaustiva la perequazione urbanistica, nell’ambito di una legge generale sul governo del territorio la cui adozione appare quanto mai auspicabile alla luce dell’inadeguatezza della normativa pregressa a fronte delle profonde innovazioni conosciute negli ultimi decenni dal diritto amministrativo e da quello urbanistico; tale auspicio va certamente condiviso proprio al fine di evitare l’insorgere di problemi di inquadramento quali quelli affrontati nel presente giudizio, aggravati dal fatto che nella specie trattasi di perequazione – per così dire – “di secondo grado”, ossia attuata non già mediante “decollo” e “atterraggio” di cubature edificabili da un suolo all’altro inter privatos, bensì a favore dell’Amministrazione in vista della realizzazione di interventi di interesse pubblico.

Tuttavia, la perdurante assenza di una tale normativa statale non può impedire da un lato che le Regioni esercitino la propria potestà legislativa in materia nel rispetto dei principi generali della legislazione statale, per altro verso che tali ultimi principi vadano individuati sulla base del quadro normativo attuale, quale risultante dal complesso della legislazione urbanistica stratificatasi sul ceppo dell’originaria legge nr. 1150 del 1942 e dell’applicazione fattane dalla giurisprudenza (anche costituzionale): è in questo modo che può pervenirsi alla conclusione secondo cui tutte le specifiche disposizioni, le quali di volta in volta e per singoli profili potrebbero venire intese quali “copertura” legislativa degli istituti in contestazione, costituiscono in realtà espressione dei superiori e generali principi che si sono richiamati.

Ciò vale, invero, per i commi 258 e 259 dell’art. 1 della legge 24 dicembre 2007, nr. 244, a proposito dei quali vi è contrasto inter partes sulla questione se essi legittimino il meccanismo di cessione delle aree al Comune previsto in termini generali dall’art. 18 delle N.T.A., ma anche per il recentissimo art. 14, comma 16, lettera f), del decreto legge 31 maggio 2010, nr. 78, apparentemente emanato al preciso scopo di legittimare ex post (se ve ne fosse bisogno) la previsione del contributo straordinario da parte del Comune di Roma.

8. In conclusione, gli argomenti fin qui svolti, in larga parte in condivisione delle tesi sviluppate dalle Amministrazioni appellanti, persuadono la Sezione della fondatezza dei relativi appelli, dei quali pertanto s’impone l’accoglimento con la consequenziale riforma della sentenza impugnata per quanto di ragione.

9. La complessità e la novità delle questioni affrontate giustificano l’integrale compensazione tra le parti delle spese di entrambi i gradi del giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione Quarta, riuniti gli appelli in epigrafe:

- respinge gli appelli incidentali proposti dal signor Adriano Cellini;

- accoglie gli appelli principali del Comune di Roma e della Regione Lazio e l’appello incidentale proposto dalla Provincia di Roma e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge integralmente il ricorso di primo grado.

Compensa tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 giugno 2010 con l’intervento dei Signori:

Gaetano Trotta, Presidente

Vito Poli, Consigliere

Salvatore Cacace, Consigliere

Sandro Aureli, Consigliere

Raffaele Greco, Consigliere, Estensore

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

sul ricorso in appello n. 6300 del 2005, proposto dal Comune di Padova, rappresentato e difeso dagli avv.ti Carlo de Simoni, Alessandra Montobbio e Fabio Lorenzoni, ed elettivamente domiciliato presso quest’ultimo in Roma, via del Viminale n. 43, come da mandato a margine del ricorso introduttivo;

contro

Antonietta Bortolami, Maria Bortolami e Romana Bortolami e Flora Bortolami, rappresentate e difese dagli avv.ti Francesco Volpe e Andrea Manzi, ed elettivamente domiciliate presso quest’ultimo in Roma, via Confalonieri n. 5, come da mandato della comparsa di costituzione e risposta;

per l’annullamento

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, sezione seconda, n. 775 del 28 febbraio 2005;


visto il ricorso in appello, con i relativi allegati,

visto l’appello incidentale proposto dalle parti controinteressate;

viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

visti gli atti tutti della causa;

relatore all’udienza pubblica del giorno 20 ottobre 2009 il consigliere Diego Sabatino;

uditi per le parti gli avvocati Lorenzoni e Volpe, in proprio e su delega dell'avv. A. Manzi;

considerato in fatto e ritenuto in diritto quanto segue:


FATTO

Con ricorso iscritto al n. 6300 del 2005, il Comune di Padova proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, sezione seconda, n. 775 del 28 febbraio 2005 con la quale era stato accolto il ricorso proposto da Antonietta Bortolami, Maria Bortolami e Romana Bortolami per l’annullamento della deliberazione del consiglio comunale di Padova del 22 ottobre 2004 n. 125, recante variante al P.R.G. per la definizione del sistema dei servizi e delle norme (revoca parziale e nuova adozione parziale), nella parte d’interesse delle ricorrenti, in quanto diretta a disciplinare urbanisticamente il compendio di loro proprietà, catastalmente allocato al foglio 135, mappali 577, 576, 19, 17, 3, 6, 458, 604, nonché per il risarcimento del danno.

A sostegno delle doglianze proposte dinanzi al giudice di prime cure, le parti ricorrenti, ricostruita la singolare storia della destinazione urbanistica dell’area in questione, avevano sottolineato molteplici vizi della delibera gravata, sotto il profilo dell’eccesso di potere per difetto di motivazione e per manifesta irragionevolezza ed incongruenza in relazione alla violazione dei principi sulla perequazione.

Costituitosi il Comune di Padova, il ricorso veniva deciso in forma semplificata con la sentenza appellata. In essa, il T.A.R. riteneva fondate le doglianze, sulla base della sostanziale reiterazione dei vincoli espropriativi e di inedificabilità, che sarebbe avvenuta in elusione dei principi che governano il modo di reiterazione di tali oneri.

Contestando le statuizioni del primo giudice, il Comune di Padova evidenziava, processualmente, l’insussistenza dei presupposti per l’emissione di una decisione in forma semplificata e, entrando nel merito, l’infondatezza delle ragioni della sentenza gravata per erronea ricostruzione del fatto, specialmente in tema di effettiva incidenza della previsione impugnata, di carattere conformativo e non espropriativo.

Nel giudizio di appello, si costituivano Antonietta Bortolami, Maria Bortolami e Romana Bortolami, chiedendo di dichiarare inammissibile o, in via gradata, rigettare il ricorso, e proponendo altresì appello incidentale.

All’udienza del 27 settembre 2005, l’istanza cautelare veniva accolta con ordinanza n. 4522/2005.

Alla pubblica udienza del 20 ottobre 2009, il ricorso è stato discusso ed assunto in decisione.

DIRITTO

1. - L’appello è fondato e merita accoglimento entro i termini di seguito precisati.

2. - Ritiene la Sezione di poter iniziare la disamina della questione sottoposta partendo dallo scrutinio del secondo motivo di diritto proposto dal Comune di Padova, in cui viene dedotta l’errata valutazione dei presupposti e la violazione di legge.

Nella ricostruzione operata, il Comune sottolinea come il T.A.R. abbia erroneamente affermato che l’indice di edificabilità sia riferito al solo 20% della superficie edificabile, mentre al contrario l’indice faceva riferimento all’intero lotto, fermo restando che la detta volumetria poteva gravare sul 20% della zona, con cessione del restante 80%.

2.1. - La doglianza è fondata e va accolta.

L’area della quale si verte risulta sottoposta ad una serie di vincoli urbanistici sin dal 1957, quando era stata destinata ad area per parchi pubblici e campi sportivi ed in parte a sede stradale. Con una successiva variante del 1977, veniva imposta una destinazione a verde attrezzato, nonché a parcheggio principale, a verde pubblico ed a sede stradale. Altre simili conformazioni venivano reiterate nel 1988 e poi nel 1997, quando si aggiungeva la previsione di percorso di interesse paesaggistico all’interno del parco urbano. Ancora altre previsioni di tale stampo si avevano con la variante del 2000 ed infine con quella del 2001 di “ridefinizione del sistema dei servizi e delle norme”, immediatamente propedeutica a quella qui gravata.

È pertanto palese che la zona in questione sia stata ininterrottamente sottoposta ad un regime vincolistico, sulla cui natura la Sezione non è chiamata a pronunciarsi, ma che evidenzia come la parte appellante non abbia mai goduto, di fatto, di una possibilità edificatoria dell’area della cui incisione possano dolersi.

Sulla base di questa considerazione iniziale, può valutarsi il contenuto della variante impugnata, in relazione alla sua capacità di aggressione del diritto di proprietà della parte appellante. Tale ragione, che ha indotto il T.A.R. ad accogliere l’appello, risiede nel fatto che la delibera impugnata imponga un indice di edificabilità di 0,25 mc/mq. sul 20% della superficie complessiva con obbligo di cessione dell’80% della superficie al Comune. Ciò determinerebbe una sostanziale espropriazione della capacità edificatoria, con violazione delle situazioni giuridiche soggettive delle parti appellanti.

Tuttavia, la ricostruzione del giudice di prime cure non è condivisibile, né in fatto né in diritto.

In merito alla questione di fatto, occorre evidenziare come le norme tecniche attuative del piano regolatore generale applicabili alla fattispecie in questione provino l’esistenza di una disciplina diversa da quella descritta in sentenza. Infatti, l’art. 16 delle NTA, relativo alla zona residenziale di perequazione, prevede che l’indice di edificabilità sia comunque riferito alla superficie territoriale di zona (Sz) e quindi all’intera area di proprietà dei soggetti interessati. Sempre alla superficie territoriale di zona si fa poi riferimento per individuare il quantum di superficie da cedere al Comune, articolando la quantificazione sia degli indici di fabbricabilità che della percentuale di cessione in modi diversi in relazione alle tre sottotipologie in cui si articola la nominata zona residenziale di perequazione (e quindi perequazione urbana, integrata o ambientale).

È pertanto non corrispondente al reale la ricostruzione operata dal giudice di prime cure. Infatti, al contrario di quanto indicato dal T.A.R., il privato non è obbligato a cedere la maggior parte della proprietà e ad edificare nel solo lotto residuo nei limiti dell’indice edificatorio applicato solo a questo ultimo ambito. È vero invece che la volumetria edificabile, rapportata alla superficie territoriale di zona e quindi alle dimensioni del lotto e commisurata all’indice edificatorio valevole per la zona di perequazione, viene calcolata sull’intero lotto e quindi comprendendo anche le superfici che saranno destinate alla cessione. Pertanto, la cessione dell’area non è elemento tale da incidere sul calcolo della volumetria realizzabile. Tale metodica permette infatti il trasferimento della capacità edificatoria del lotto originario nell’area destinata alla costruzione effettiva, senza alcuna espropriazione, palese o occulta, delle situazioni giuridiche attribuite ai privati.

In merito alla situazione di diritto, occorre evidenziare come, così delineato il contenuto della variante gravata, venga meno anche l’ipotesi, ritenuta fondata dal T.A.R., di una “sostanziale reiterazione dei vincoli espropriativi e di inedificabilità” che avrebbe eluso “l’applicazione dei principi che presiedono alle determinazioni che espressamente reiterano tali tipi di vincoli”. In primo luogo, infatti, non è per nulla pacifico che l’area fosse stata precedentemente sottoposta a vincoli espropriativi, atteso che, nella sommaria descrizione prima svolta ed evincibile dai documenti versati in giudizio, le prescrizioni già gravanti sull’area avevano un contenuto schiettamente conformativo. In secondo luogo, perché nemmeno la delibera gravata introduce elementi di ablazione dello ius aedificandi delle parti appellate. Va, infatti, evidenziato che, con il sistema sopra descritto, il privato continua a godere della capacità edificatoria dell’area di sua proprietà, subendo solo un mutamento del luogo in cui tale capacità potrà trasformarsi in concreta edificazione.

Né è possibile ritenere esistente la detta espropriazione solo per l’entità dell’indice edificatorio adottato, che le parti indicano come estremamente esiguo. Premesso che il carattere conformativo dei vincoli di piano non dipende dalla collocazione in una specifica categoria di strumenti urbanistici, ma soltanto dai requisiti oggettivi, di natura e struttura, dei vincoli stessi (Consiglio di Stato, sez. IV, 23 luglio 2009, n. 4662), va ricordato come i vincoli di piano regolatore, ai quali si applica il principio della decadenza quinquennale ai sensi dell'art. 2 L. 19 novembre 1968 n. 1187, sono soltanto quelli che incidono su beni determinati, assoggettandoli a vincoli preordinati all’espropriazione od a vincoli che ne comportano l'inedificabilità assoluta e dunque svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale. Nel caso in specie, una tale circostanza non si verifica atteso che, sebbene conformata, una residua capacità edilizia continua a permanere, e ci si trova quindi di fronte ad una prescrizione diretta a regolare concretamente l'attività edilizia, in quanto inerente alla potestà conformativa propria dello strumento urbanistico generale.

3. - L’accoglimento delle ragioni dell’appello principale impone di valutare le questioni ritenute assorbite dal T.A.R. e riproposte, anche tramite appello incidentale, dalle parti appellate. Occorre peraltro evidenziare che, dei motivi di doglianza, il primo risulta già valutato nelle considerazioni pregresse, fondandosi sulla tesi della natura espropriativa dei vincoli in questione ed il secondo, che riguarda la violazione dei principi di legge in tema di perequazione, censura l’operato del Comune evidenziando ancora che si tratti di “cripto-vincoli”, e quindi sostanzialmente rifluendo nelle questioni già esaminate.

Pertanto, le doglianze proposte dalla parte appellante sono sostanzialmente ricomprese nell’ambito di giudizio sopra scrutinato. Vanno pertanto disattese e, conseguentemente, non può essere accolta la domanda risarcitoria riproposta in appello, venendo a mancare l’illegittimità del provvedimento gravato.

4. - Rimane da valutare il primo motivo di diritto proposto dal Comune, con cui si deduce l’illegittimità della decisione per insussistenza dei presupposti per l’emanazione, stante l’inesistenza del requisito della manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso. La questione processuale può peraltro essere disattesa, stante l’accoglimento del ricorso nel merito.

5. - L’appello va quindi accolto. Sussistono peraltro motivi per compensare integralmente tra le parti le spese processuali, determinati dalla parziale novità della questione sottoposta.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunziando in merito al ricorso in epigrafe, così provvede:

1. Accoglie l’appello principale n. 6300 del 2005 e per l’effetto in riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, sezione seconda, n. 775 del 28 febbraio 2005, respinge il ricorso di primo grado;

2. Respinge l’appello incidentale proposto nel ricorso n. 6300 del 2005;

3. Compensa integralmente tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 20 ottobre 2009, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sezione Quarta - con la partecipazione dei signori:

Pier Luigi Lodi, Presidente FF

Giuseppe Romeo, Consigliere

Antonino Anastasi, Consigliere

Sergio De Felice, Consigliere

Diego Sabatino, estenzore

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto

(Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

nel giudizio introdotto con il ricorso 125/07, proposto da Antonietta, Flora, Maria e Romana Bortolami, rappresentate e difese dall'avv. F. Volpe, con domicilio presso la Segreteria del T.A.R. Veneto, giusta art. 35 r.d. 26 giugno 1924, n. 1054;

contro

il Comune di Padova, in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv. ti Lotto, Bicocchi e Montobbio, con domicilio presso la Segreteria del T.A.R. Veneto, giusta art. 35 r.d. 26 giugno 1924, n. 1054;
la Regione Veneto, in persona del presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv. ti Luisa Londei, Zanlucchi e Zanon, con domicilio eletto presso la sede dell’Avvocatura regionale in Venezia, Cannaregio 23;

per l'annullamento

quanto al ricorso principale, e nei limiti dell’interesse delle ricorrenti

a) della d.g.r. 17 ottobre 2006, n. 3239, recante approvazione della variante parziale al piano regolatore generale del Comune di Padova;

b) dei pareri preliminari al provvedimento sub a del Comitato di cui all’art. 27, comma II, l.r. 1/04, rilasciato in data 12 settembre 2006 n. 422;

c) della deliberazione 22 ottobre 2004, n. 125, del consiglio comunale di Padova;

d) degli atti antecedenti, presupposti, preordinati, preparatori, consequenziali ovvero comunque connessi;

nonché, quanto ai motivi aggiunti,

e) della deliberazione 9 luglio 2007, n. 68, del consiglio comunale di Padova.


Visto il ricorso con i relativi allegati ed i successivi motivi aggiunti;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Padova e della Regione Veneto;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 febbraio 2010 il cons. avv. A. Gabbricci e uditi l’avv. Volpe per le ricorrenti, l’avv. Bicocchi per il Comune intimato e l’avv. Zanon per la Regione Veneto;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1.1. Antonietta, Flora e Romana Bortolami sono comproprietarie di alcuni terreni in Padova (censiti a fg. 135, mappali 577, 576, 19, 17, 3, 6, 458,604), in località “Basso Isonzo”, costituenti un unico compendio immobiliare, per una superficie complessiva di oltre m² 30.000, prossimo ad un quartiere residenziale.

1.2. Per l'area Bortolami – sin dal 1957 destinata a parco pubblico e campo sportivo, ed in parte a sede stradale - la variante al piano regolatore generale del 1977 previde destinazioni vincolate a verde pubblico ed attrezzato, a parcheggio ed a sede stradale: vincoli reiterati nel 1983, ed ancora nel 1988; gli stessi vincoli furono poi reintrodotti nel 1997, aggiungendosi una previsione per la realizzazione d’un percorso d’interesse paesaggistico all'interno del parco urbano, nonché un vincolo di destinazione privata.

Più tardi, una successiva variante del 2000 si limitò a sostituire il vincolo a verde pubblico con uno a sede stradale, cui seguì – alla scadenza dei vincoli per decorrenza quinquennale – la variante adottata con deliberazione consiliare 26 novembre 2001, n. 117, peraltro mai approvata, e sostituita dalla nuova variante, adottata con deliberazione 22 ottobre 2004, n. 175, del consiglio municipale.

1.3. La deliberazione 175/04 confermò i precedenti vincoli di “destinazione privata soggetta a tutela dello stato di fatto”, di sede stradale, di interesse paesaggistico; ridusse un preesistente ambito d’intervento perequativo, assoggettando a nuove prescrizioni; determinò l'indice d’edificabilità in 0,15 m³/m², riducendo la superficie edificabile al 20% del comparto, ed aumentando all'80% la superficie da destinarsi a servizi pubblici, e dunque da cedere all’Ente territoriale.

1.4. La deliberazione de qua venne impugnata dalle Bortolami, nei limiti dell'interesse, con il ricorso n. 58/2005, che venne accolto dalla Sezione con la sentenza semplificata 775/05, per la quale “attraverso il contenuto della delibera impugnata … il Comune, pur nel richiamo formale al neo istituto urbanistico della perequazione, in realtà ha realizzato una sostanziale reiterazione dei vincoli espropriativi e di inedificabilità, con ciò eludendo l’applicazione dei principi che presiedono alle determinazioni che espressamente reiterano tali tipi di vincoli”.

1.5. Il Comune presentò immediatamente appello, e chiese altresì la sospensione della sentenza; richiesta che il Consiglio di Stato accolse con l’ordinanza 4522/05 della IV Sezione, dopo la quale fu riavviata la procedura d’approvazione della variante, fino alla d.g.r. 17 ottobre 2006, n. 3239, che l’ha approvato con modifiche: per quanto d’immediato interesse, invero, la superficie da cedere al Comune è stata ridotta al 75%, aumentando così al 25% la superficie da destinare all’edificazione privata.

1.6. Avverso il provvedimento d’approvazione, e gli atti del relativo procedimento, le consorti Bortolami hanno proposto il ricorso in esame; questo è stato poi integrato con motivi aggiunti, avverso la deliberazione 9 luglio 2007, n. 68, del consiglio comunale di Padova, avente ad oggetto: «Piano guida "Parco del Basso Isonzo ". Zona di perequazione ambientale zona: 3 est - 3 ovest. Approvazione».

Si sono costituiti in giudizio sia il Comune di Padova che la Regione Veneto, concludendo per la reiezione.

2.1.1. Il ricorso principale è articolato in due motivi, il primo dei quali è rubricato nell’eccesso di potere sotto il profilo del difetto di motivazione; nella violazione degli art. 7 nn. 2, 3 e 4 e 40 della l. 1150/42 e 2, comma 1, della l. 1187/68; nella violazione degli artt. 9 e 39 del d.P.R. 327/01; nella violazione degli artt. 7 e 8 della l. 241/90.

2.1.2. Le ricorrenti muovono dall’affermazione per cui i vincoli apposti con lo strumento urbanistico impugnato costituirebbero prescrizioni d’inedificabilità assoluta, ovvero preespropriative, persistenti ininterrottamente dal 1957.

Orbene, secondo i principi dapprima stabiliti dalla Corte costituzionale con la sentenza 179/99 e quindi confermati dall’art. 9 del d.P.R. 327/01, se non è tempestivamente dichiarata la pubblica utilità dell’opera, il vincolo preordinato all’esproprio decade e può essere motivatamente reiterato, con la previsione di un indennizzo, in conformità a quanto previsto dagli artt. 9 e 39 del d.P.R. 380/01.

Tuttavia, la deliberazione comunale di adozione della variante non ha previsto tale indennizzo: sicché essa è illegittima, e invalida in via derivata è anche la deliberazione di approvazione della stessa variante.

2.2.1. Il secondo motivo, a sua volta, censura il provvedimento impugnato per eccesso di potere sotto il profilo sintomatico della manifesta irragionevolezza e della manifesta incongruenza, per violazione dei principi sulla perequazione, per eccesso di potere per sviamento, per violazione degli artt. 7 nn. 2, 3 ,4 e 40 della l. 1150/42 e 2, I comma, della l. 118768; per violazione degli artt. 9 e 39 del d.P.R. 327/01; per violazione degli artt. 7 e 8 della l. 241/90.

2.2.2. Il motivo di ricorso assume che, attraverso una falsa applicazione dell’istituto della perequazione urbanistica, la previsione di piano impugnata riconduce l’area ad un regime di sostanziale inedificabilità, senza prevedere alcun collegato regime indennitario.

Invero, premettono le ricorrenti, “a fronte della concessione di un indice di edificabilità complessivo, ed irrisorio, di 0,15 mc/mq – l’art. 16 bis delle n.t.a. prevede una destinazione a servizi pubblici e a uso pubblico del 75% della superficie territoriale di zona, che dovranno essere cedute gratuitamente al Comune dalle parti private che intendano sfruttare urbanisticamente il residuo 25%”; ed a ciò si aggiungerebbero gli oneri d’urbanizzazione ed i contributi di costruzione previsti dalla legge, ed un’ulteriore decurtazione della superficie edificabile effettiva, essendo prevista la destinazione a verde attrezzato del 10% della stessa.

2.2.3. In generale, l’istituto della perequazione urbanistica avrebbe la finalità di ripartire equamente oneri e vantaggi dell’urbanizzazione di un comparto tra i suoi proprietari, che si troverebbero altrimenti a subire, ovvero ad avvantaggiarsi eccessivamente, degli impieghi decisi per le loro aree: come stabilito dall’ art. 35, I comma, della l.r. 23 aprile 2004, n. 11, “la perequazione urbanistica persegue l’equa distribuzione, tra i proprietari degli immobili interessati dagli interventi, dei diritti edificatori riconosciuti dalla pianificazione urbanistica e degli oneri derivanti dalla realizzazione delle dotazioni territoriali”.

2.2.4. Peraltro, continua il ricorso, la perequazione ha subito gradualmente una modificazione, a vantaggio degli Enti territoriali, i quali hanno cominciato a partecipare alla ripartizione dei benefici, derivanti dall’attribuzione dell’edificabilità, a determinate porzioni del territorio comunale, ben oltre quanto ad essi spettante per gli oneri d’urbanizzazione ed i contributi di costruzione.

I Comuni, insomma, sono andati via via riservandosi percentuali crescenti delle superfici interessate alle trasformazioni urbanistiche, affinché con esse si provveda alla realizzazione di alloggi popolari, di servizi e d’infrastrutture pubbliche.

Si tratterebbe tuttavia di un’applicazione difforme dalla logica perequativa, poiché “in tal modo non si finisce per pareggiare una situazione di potenziale ricchezza riconosciuta ad un privato con quella di permanente non arricchimento di altro soggetto privato”, ma si assegna all’Ente un provento ulteriore. Questo, però, solo con particolari temperamenti può trovare legittimo fondamento nell’art. 35, IV comma, della l.r. 11/04, per cui “ai fini della realizzazione della volumetria complessiva derivante dall’indice di edificabilità attribuito, i piani urbanistici attuativi (PUA), i comparti urbanistici e gli atti di programmazione negoziata, individuano gli eventuali edifici esistenti, le aree ove è concentrata l’edificazione e le aree da cedersi gratuitamente al comune o da asservirsi per la realizzazione di servizi ed infrastrutture, nonché per le compensazioni urbanistiche ai sensi dell'articolo 37”: e quest’ultimo dispone che “sono consentite compensazioni che permettano ai proprietari di aree ed edifici oggetto di vincolo preordinato all’esproprio di recuperare adeguata capacità edificatoria … su altre aree e/o edifici, anche di proprietà pubblica, previa cessione all’amministrazione dell’area oggetto di vincolo”.

2.2.5. Invero, secondo il ricorso, cessioni ed asservimenti saranno consentiti solo nel limite di un’equa redistribuzione delle risorse edificatorie e delle superfici complessive delle aree, e dovranno essere d’entità tale da rendere l’intervento urbanistico sufficientemente remunerativo.

Quando, invece, le cessioni da operare a favore del Comune sono sproporzionate e troppo gravose per il privato, l’istituto della perequazione ne sarebbe snaturato: e questo appunto avverrebbe nella fattispecie, dove la percentuale di cessione prevista, raffrontata al contenuto indice di edificabilità, condurrebbe ad affermare che il Comune ha in effetti sostanzialmente introdotto un vincolo d’inedificabilità ed un vincolo espropriativo, senza motivazione e senza previsioni indennitarie.

3.1. Le ricorrenti hanno richiesto a questo giudice un provvedimento cautelare che è stato tuttavia negato con l’ordinanza cautelare 107/07, mentre per la decisione causa venne poi fissata la pubblica udienza del giorno 11 febbraio 2010.

3.2.1. Tuttavia, pochi giorni prima è stato definito con la sentenza 216/10 della IV Sezione, il giudizio d’appello avverso con la sentenza 775/05, la quale ha accolto il gravame del Comune, confermando così integralmente la variante adottata.

3.2.2. In tale sentenza – il cui rilievo nella presente causa è evidente, considerato che le censure dei due ricorsi sono sostanzialmente le stesse – viene anzitutto ricostruito il regime vincolistico cui la proprietà Bortolami era stata assoggettata sin dal 1957, ed al quale prima si è accennato.

A causa di tale regime, in effetti, i proprietari non avevano di fatto mai goduto d’una possibilità edificatoria dell’area: e, sulla base di questa considerazione iniziale, secondo la decisione, “può valutarsi il contenuto della variante impugnata, in relazione alla sua capacità di aggressione del diritto di proprietà della parte appellante”.

3.2.3. Ora, continua la sentenza, l’art. 16 delle n.t.a. di piano, applicabile alla fattispecie e relativo alla zona residenziale di perequazione, prevede che l’indice di edificabilità sia comunque riferito alla superficie territoriale di zona (Sz) e quindi all’intera area di proprietà dei soggetti interessati. Insomma, “la volumetria edificabile, rapportata alla superficie territoriale di zona e quindi alle dimensioni del lotto e commisurata all’indice edificatorio valevole per la zona di perequazione, viene calcolata sull’intero lotto e quindi comprendendo anche le superfici che saranno destinate alla cessione, che pertanto non incide sul calcolo della volumetria realizzabile”: una metodica che permette “il trasferimento della capacità edificatoria del lotto originario nell’area destinata alla costruzione effettiva, senza alcuna espropriazione, palese o occulta, delle situazioni giuridiche attribuite ai privati”.

3.2.4. Così delineato il contenuto della variante gravata, prosegue la decisione impugnata, viene meno l’ipotesi di una reiterazione dei vincoli espropriativi e di inedificabilità, in elusione dei principi che presiedono alle determinazioni che espressamente reiterano tali tipi di vincoli.

3.2.5. Anzitutto, è dubbio che l’area fosse precedentemente sottoposta a vincoli espropriativi, poiché “le prescrizioni già gravanti sull’area avevano un contenuto schiettamente conformativo”.

In secondo luogo, la delibera gravata non introduce elementi di ablazione dello ius aedificandi delle parti appellate: con il sistema sopra descritto, il privato continua a godere della capacità edificatoria dell’area di sua proprietà, “subendo solo un mutamento del luogo in cui tale capacità potrà trasformarsi in concreta edificazione”.

3.2.6. D’altronde, non “è possibile ritenere esistente la detta espropriazione solo per l’entità dell’indice edificatorio adottato, che le parti indicano come estremamente esiguo”.

Invero “i vincoli di piano regolatore, ai quali si applica il principio della decadenza quinquennale ai sensi dell'art. 2 L. 19 novembre 1968 n. 1187, sono soltanto quelli che incidono su beni determinati, assoggettandoli a vincoli preordinati all’espropriazione od a vincoli che ne comportano l'inedificabilità assoluta e dunque svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale”.

Al contrario, nel caso ciò non avviene, poiché “sebbene conformata, una residua capacità edilizia continua a permanere, e ci si trova quindi di fronte ad una prescrizione diretta a regolare concretamente l'attività edilizia, in quanto inerente alla potestà conformativa propria dello strumento urbanistico generale”.

3.2.7. Per quanto poi riguarda specificatamente la tematica della perequazione, la sentenza rileva come la stessa sia già stata valutata nelle precedenti considerazioni, fondandosi sulla tesi della natura cripto- espropriativa dei vincoli in questione, già affrontata e superata.

4.1. A questo punto, completata l’esposizione delle vicende pregresse e delle censure prospettate avverso il provvedimento di approvazione, questo Collegio ritiene che la decisione sul ricorso principale 125/07 non possa discostarsi da quella assunta dal giudice d’appello con la sentenza 216/10, superando così tutte le eccezioni preliminari proposte dalle Amministrazioni resistenti.

4.2. Anzitutto, va respinta la censura d’invalidità derivata, proposta con il primo motivo di ricorso. Respinto in parte qua, sia pure in grado d’appello, il ricorso avverso il provvedimento di adozione della variante, non può che conseguirne un’analoga reiezione del successivo provvedimento d’approvazione.

4.3. Per quanto riguarda il secondo motivo di ricorso, non si può tecnicamente ravvisare nella fattispecie un giudicato interno, sia perché la decisione 216/10 del Consiglio di Stato non era ancora passata in giudicato, quando il ricorso qui in esame è stato assegnato a sentenza, sia perché il presente giudizio si distingue formalmente da quello, il cui esito è costituito dalla rammentata pronuncia, tanto per quello che riguarda l’atto introduttivo d’impulso, quanto per l’oggetto (e, in parte anche sotto il profilo soggettivo).

Tuttavia, non può essere priva di conseguenze, almeno sul piano logico, la sostanziale identità delle censure e la corrispondenza dei contenuti dei due provvedimenti – di adozione e di approvazione della variante.

Anzi, come già esposto, il provvedimento di approvazione ha accresciuto al 25% la superficie effettiva dove edificare il volume complessivo; non è poi previsto, come invece sostengono le ricorrenti, che la superficie edificabile subisca l’ulteriore decurtazione del 10%, con destinazione a verde attrezzato.

4.4. Non sembra dunque possibile discostarsi dalla conclusione raggiunta nella richiamata sentenza, per cui nessun vincolo espropriativo grava sulla proprietà delle Bortolami, le quali dispongono comunque – a fronte della situazione precedente all’introduzione della variante, quando i loro terreni erano pressoché integralmente vincolati – di una nuova volumetria edificabile di circa m³ 4.500 (m² 30.000 * 0,15) da erigere sul 25% della proprietà.

È dunque certamente decisamente inappropriato parlare di reiterazione dei vincoli preesistenti, e, altresì, d’una carenza di motivazione, ovvero di mancata previsione di un indennizzo. Si tenga comunque presente che, secondo la più recente giurisprudenza, “L'omessa previsione dell'indennizzo, a fronte della reiterazione di un vincolo espropriativo o di inedificabilità scaduto, non costituisce vizio idoneo a determinare l'illegittimità del provvedimento di pianificazione, legittimando unicamente le eventuali iniziative dell'espropriando in sede giurisdizionale tese al riconoscimento del proprio diritto all'indennità” (C.d.S., IV, 3 marzo 2009, n. 1214); mentre, d’altra parte, “l'omessa previsione dell'indennizzo non inficia la legittimità del provvedimento di reiterazione di un vincolo espropriativo o di inedificabilità scaduto”. (C.d.S.. IV, 19 febbraio 2008, n. 529).

4.5. Il ricorso principale va dunque respinto; ed egualmente vanno rigettati i motivi aggiunti, con cui è stato impugnata, esclusivamente per invalidità derivata la deliberazione consiliare 9 luglio 2007, n. 68, che ha approvato alcune prescrizioni dirette a vincolare la formazione dei piani urbanistici di attuazione per l’area in cui si trova la proprietà Bortolami.

5. Così come per il precedente giudizio, sussistono motivi sufficienti per disporre l’integrale compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.

il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, seconda Sezione, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe, lo rigetta.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso in Venezia nella camera di consiglio addì 11 febbraio 2010 con l'intervento dei signori magistrati:

Angelo De Zotti, Presidente

Angelo Gabbricci, Consigliere, Estensore

Marina Perrelli, Referendario

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Ric. n. 58/2005 Sent. n. 775/2005
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, seconda Sezione, con l’intervento dei signori magistrati:
Lorenzo Stevanato Presidente f.f.
Elvio Antonelli Consigliere, relatore
Fulvio Rocco Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 58/2005 proposto da BORTOLAMI ANTONIETTA, BORTOLAMI MARIA e BORTOLAMI ROMANA, rappresentate e difese dall’avv. Francesco Volpe, con domicilio presso la segreteria del T.A.R. ai sensi dell’art. 35 del R.D. 26.6.1924 n. 1054;
CONTRO
il Comune di Padova in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Carlo De Simoni, Alessandra Montobbio, Vincenzo Mizzoni, Marina Lotto, Paolo Bernardi, Alberto Bicocchi e Paola Munari, con elezione di domicilio presso la segreteria di questo Tribunale;
la Regione Veneto in persona del Presidente pro tempore, non costituita in giudizio;
PER
l'annullamento, previa sospensione dell'esecuzione, della deliberazione del Consiglio comunale di Padova 22.10.2004 n. 125 recante variante al P.R.G. per la definizione del sistema dei servizi e delle norme (revoca parziale e nuova adozione parziale), nella parte d’interesse delle ricorrenti, in quanto diretta a disciplinare urbanisticamente il compendio di loro proprietà, catastalmente allocato al Foglio 135, mappali 577, 576, 19, 17, 3, 6, 458, 604, nonché per il risarcimento del danno.
Visto il ricorso, notificato il 30.12.2004 e depositato presso la Segreteria il 12.1.2005, con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Padova, depositato il 21.2.2005;
Visti gli atti tutti di causa;
Uditi alla camera di consiglio del 23 febbraio 2005, convocata a’ sensi dell’art.. 21 della L. 6 dicembre 1971 n. 1034 così come integrato dall’art. 3 della L. 21 luglio 2000 n. 205 - relatore il Consigliere Elvio Antonelli – gli avv.ti Volpe, per la parte ricorrente e De Simoni, per il Comune resistente;
Rilevata, a’ sensi dell’art. 26 della L. 6 dicembre 1971 n. 1034 così come integrato dall’art. 9 della L. 21 luglio 2000 n. 205, la completezza del contraddittorio processuale e ritenuto, a scioglimento della riserva espressa al riguardo, di poter decidere la causa con sentenza in forma semplificata;
Richiamato in fatto quanto esposto nel ricorso e dalle parti nei loro scritti difensivi;
considerato
che nella specie attraverso il contenuto della delibera impugnata (indice di edificabilità 0,15 mc/mq. sul 20% della superficie complessiva; 80% della superficie da cedere al Comune) il Comune pur nel richiamo formale al neo istituto urbanistico della perequazione in realtà ha realizzato una sostanziale reiterazione dei vincoli espropriativi e di inedificabilità con ciò eludendo l’applicazione dei principi che presiedono alle determinazioni che espressamente reiterano tali tipi di vincoli;
che attesa l’immediatezza della decisione non possono ritenersi sussistenti danni risarcibili;
Ritenuto di poter compensare integralmente tra le parti le spese e gli onorari del giudizio;
P.Q.M.
il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto, seconda sezione, definitivamente pronunciando sul ricorso in premessa, respinta ogni contraria istanza ed eccezione, accoglie il ricorso e, per l’effetto, annulla il provvedimento impugnato nella parte relativa ai terreni dei ricorrenti; rigetta la domanda di risarcimento danni.
Compensa integralmente tra le parti le spese e gli onorari del giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Venezia, nella Camera di Consiglio del 23 febbraio 2005.
Il Presidente f.f. L’Estensore

Il Segretario



SENTENZA DEPOSITATA IN SEGRETERIA
il……………..…n.………
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)
Il Direttore della Second

 

 

Ultimo aggiornamento ( giovedì 05 agosto 2010 )
 
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