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Il regime transitorio del codice sul processo amministrativo PDF Stampa E-mail
lunedì 23 agosto 2010


di FRANCESCO VOLPE


 

1. - Il codice del processo amministrativo, approvato con il d. lgs. 2 luglio 2010, n. 104, è assai parco nel definire quale sia il suo regime transitorio.

Tenendo conto dell'iter che l'approvazione del codice ha seguìto e degli organi a cui ne è stata affidata la redazione, una tale laconicità non può essere frutto del caso o della disattenzione; probabilmente si è voluto evitare, per quanto più è possibile, il sovrapporsi di vari riti, come, invece, si è visto accadere in questi ultimi anni, in occasione delle riforme portate al rito civile, con esiti non certo apprezzabili per quanto attiene alla semplicità di svolgimento dei processi.

Sembra doversi sostenere, così, che i redattori del codice abbiano inteso semplificare il regime transitorio e uniformare i riti, affidando all'interprete, sulla base dei principi generali ivi indicati, la soluzione dei casi concreti.

Ma, come spesso avviene, l'intenzione, benché condivisibile, trova poi non poche difficoltà ad applicarsi alla realtà del caso concreto.

Queste brevi note sono, dunque, destinate ad ipotizzare quali problemi di diritto transitorio potranno porsi.

Esse sono il frutto, per così dire, della “fantasia” di chi scrive, ma si è pressoché certi che la casistica farà emergere questioni e problemi ulteriori rispetto a quelli ipotizzati.

2. - Le uniche disposizioni esplicite dedicate dal codice al regime transitorio sono le seguenti.

Innanzitutto, si deve considerare l'art. 2 dello stesso d. lgs. n. 104/2010.

Tale disposizione non è contenuta in uno degli allegati del decreto legislativo (uno dei quali esprime il codice processuale vero e proprio), ma è contenuta nel corpo del decreto legislativo stesso.

Pertanto, l'art. 2, nello stabilire che “il presente decreto entra in vigore il 16 settembre 2010” è disposizione di portata generale, nei riguardi di tutta la nuova disciplina indicata dal decreto legislativo n. 104/2010 e da tutti i suoi allegati. Esso, dunque, incide direttamente anche sullo stesso codice, che è contenuto nell'allegato n. 1 del decreto legislativo.

Le altre disposizioni di carattere transitorio sono contenute, invece, nell'allegato 3, che, appunto, è intitolato “norme transitorie”.

In disparte la disposizione sulla nuova perenzione quinquennale (art. 1), ivi è contenuto un titolo II (a sua volta denominato “ulteriori norme transitorie”), che è suddiviso negli articoli 2 e 3 di questo stesso allegato.

L'art. 2 dell'allegato 3, è intitolato “ultrattività della disciplina previgente” e la rubrica sembra indicare che il regime previgente, lì preso in considerazione, possa applicarsi alle controversie pendenti alla data del 16 agosto 2010 (le sole a cui compete un regime transitorio), solo nei limiti indicati dall'articolo stesso.

E tali limiti – spiega l'art. 2 cit. - riguardano in primo luogo il regime dei termini.

Per essi, purché “in corso alla data di entrata in vigore del codice”, “continuano a trovare applicazione le norme previgenti”.

Sembra così doversi affermare che di tutta la disciplina previgente (attinente alle modalità di presentazione delle domande, all'attività istruttoria e ad ogni singolo aspetto del processo), in stretto ossequio al principio tempus regit actum, sopravvivano solo i termini propriamente detti, purché pendenti, e le attività cui tali termini sono ovviamente collegati.

A conferma di quanto ora ipotizzato, preme ora richiamare anche l'art. 3 dell'allegato 3, intitolato “disposizione particolare per il giudizio di appello”, secondo il quale “la disposizione di cui all’articolo 101, comma 2, del codice non si applica agli appelli depositati prima dell’entrata in vigore del codice medesimo”.

Al di là di ciò che la norma esplicitamente stabilisce, infatti (vale a dire che, nei giudizi di appello già introdotti in virtù del loro deposito, non grava l'onere per la parte appellata di riproporre con la tempestiva memoria di costituzione le domande e le eccezioni assorbite in primo grado), l'art. 3, in ragione della sua portata derogatoria ed eccezionale, descrive implicitamente il principio generale sotteso.

In altri termini, dal combinato disposto dell'art. 2 e dell'art. 3, sembra delinearsi il principio generale, informatore di tutto il regime transitorio, secondo il quale il nuovo codice si applica integralmente a far data dal giorno della sua entrata in vigore (16 settembre 2010) anche a tutte le controversie a quella data pendenti, salve le norme inerenti ai termini che saranno allora “in corso” e salvi i poteri difensivi della parte appellata nelle impugnazioni già instaurate.

3. - Quelle ora enunciate sono conclusioni che implicano già l'applicazione di un procedimento interpretativo.

Si è fatto ricorso, infatti, al principio tempus regit actum e al principio di divieto di interpretazione analogica o estensiva delle norme di carattere eccezionale o speciale, per delineare a contrariis un regime generale.

Ciò non ostante, tali conclusioni non sembrano permettere di dare una soluzione affidabile a tutti i problemi di carattere transitorio che potranno sollevarsi, perché il codice non si è limitato a modificare i termini e le formalità del processo, lasciando inalterati i suoi istituti. Come ben si sa, invece, esso ha portato modificazioni anche radicali agli istituti stessi.

Di talché si pone la necessità di investigare se ai processi pendenti sia davvero sempre applicabile il regime introdotto dalla nuova disciplina o se, in certi casi, si debba ancora applicare il regime previgente.

4. - Il primo problema che si pone attiene ai nuovi poteri del giudice e alla possibilità di estendere i poteri, nuovi o modificati, alle controversie già in essere.

È questo un problema che merita di essere affrontato, in generale, in un appropriato e successivo punto di questa esposizione. Tuttavia, alcune delle questioni che emergono a riguardo dei nuovi poteri del giudice richiedono una trattazione separata e preliminare, riguardando il caso in cui detti poteri si riflettono sulle modalità con cui il giudizio è stato introdotto.

A questi aspetti si dedicherà subito rilievo, avvisando che essi concernono, in particolare, il problema della rilevabilità d'ufficio dell'incompetenza del giudice adito.

Nel regime previgente, la competenza dei Tribunali amministrativi e del Consiglio di Stato (per le residue ipotesi in cui esso agisce ancora come giudice di unico grado) era ripartita sulla base di criteri cosiddetti territoriali e di criteri funzionali. La competenza territoriale era derogabile dalle parti e non poteva essere rilevata d'ufficio, la competenza funzionale non era derogabile e, se mancante, doveva essere rilevata direttamente dal giudice.

Il codice, dal canto suo, ha reso inderogabile anche la competenza territoriale (art. 13), sostanzialmente lasciando inalterati i criteri per determinarla. Esso ha previsto, anche, che il giudice debba sempre rilevare d'ufficio il suo difetto (art. 15).

Si pone, dunque, il seguente problema. Con riferimento ai giudizi introdotti prima del 16 settembre 2010 e non ancora definiti, potrà il giudice amministrativo rilevare d'ufficio la propria eventuale incompetenza?

A parere di chi scrive, il richiamo all'art. 5 del codice di procedura civile, giusta il quale “la giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo”, non è, probabilmente, pienamente utile a risolvere il problema.

Infatti, le disposizioni del più dettagliato codice di rito trovano oggi applicazione, nel processo amministrativo, solo in sede di rinvio c.d. esterno “per quanto non disciplinato dal (…) codice” del processo amministrativo” e “in quanto compatibili o espressione di principi generali” (art. 39). Diversamente “il processo amministrativo si svolge secondo le disposizioni del Libro II che, se non espressamente derogate, si applicano anche alle impugnazioni e ai riti speciali” (art. 38).

Ebbene, si può ben dire che il principio della perpetuatio iurisdictionis, enunciato dall'art. 5 cit., costituisce un principio generale di tutti i processi, proprio perché la questione sulla giurisdizione si pone a cavaliere tra i sistemi giudiziari di cui la Repubblica si compone.

Pertanto, le sopravvenute norme sulla giurisdizione (peraltro anch'esse, nel codice, sostanzialmente conformi a quelle previgenti, salvi i dubbi circa la precedente proponibilità davanti al giudice amministrativo delle azioni risarcitorie da lesione dell'interesse legittimo e salvo quanto si dirà a proposito dell'azione di nullità testuale) non saranno in grado d'incidere sui processi già radicati.

Un'analoga conclusione non sarebbe, però, altrettanto convincente se fosse applicata ai problemi sulla competenza, dal momento che a tal riguardo l'art. 5 cod. proc. civ., essendo contenuto nel codice di procedura civile e non avendo a riguardo i confini sovragiurisdizionali, non può disciplinare che il riparto della competenza tra gli organi giurisdizionali che compongono il sistema del Giudice Ordinario, senza incidere così sul riparto interno al giudice amministrativo.

L'estensione dell'art. 5, anche in materia di competenza, al processo amministrativo dovrebbe quindi, più appropriatamente, essere sostenuta sulla base del secondo criterio dettato dall'art. 39 del codice, che è quello della compatibilità, alla luce del quale il richiamo risulterebbe senza dubbio più plausibile.

Ma, a questo punto, va rammentato che, in forza dell'art. 39 cit., il rinvio alle norme sul processo civile è consentito a patto che già non esista, nel codice stesso, una disciplina diretta o da quello desumibile. Il rinvio, in tema di competenza, all'art. 5 cod. proc. civ., è dunque ammissibile solo sul presupposto che il problema del regime transitorio in materia di competenza non sia disciplinato, esplicitamente o implicitamente, dal codice stesso.

Ebbene, è lecito obiettare che non è affatto vero che manchi, sul punto, una disciplina nel nuovo regime processualamministrativistico, giacché si potrebbe sostenere che questa deve appunto essere individuata negli artt. 2 e 3 dell'allegato 3, secondo il quale il codice è, in ogni sua parte, immediatamente applicabile a far data dal 16 settembre 2010, fatte salve le disposizioni derogatorie relative ai termini pendenti e alla difesa in appello.

Né si potrebbe, piuttosto formalisticamente, osservare che il codice del processo amministrativo è contenuto nell'allegato 1 del d. lgs. n. 104/2010, mentre gli artt. 2 e 3 cit. sono contenuti nell'allegato 3, sì da sostenere che lo stesso articolo 39, laddove esso fa riferimento al “codice”, non abbia inteso richiamare il successivo allegato

Se si sposasse tale tesi, infatti, si finirebbe, probabilmente, per offrire una soluzione che “prova troppo”, dal momento che ogni problema di diritto transitorio risolubile alle luce della disciplina processualcivilistica sarebbe allora in grado di derogare all'allegato 3, vanificando, di fatto, la portata generale di quest'ultimo, che invece sembra essere specificamente destinato a disciplinare detto tipo di problemi.

Il motivo per cui va escluso che le nuove regole sull'inderogabilità della competenza territoriale si applichino anche ai giudizi instati prima del 16 settembre 2010 vanno dunque ricercati altrove e, più semplicemente, nel principio di interpretazione costituzionalmente adeguata.

Sarebbe, infatti, verosimilmente contrario al principio del giusto processo (art. 111 Cost.) prevedere un'ipotesi di inammissibilità del ricorso che non era prevista al momento della instaurazione del giudizio e che, per di più, potrebbe non essere neppure sanabile.

5. - Un caso analogo a quello ora considerato - di mutamento dei poteri del giudice, collegato alle modalità di instaurazione del giudizio - è probabilmente marginale. Ma poiché esso sembra portare a conclusioni almeno in parte diverse rispetto quelle ora raggiunte a proposito del regime dell'incompetenza territoriale, sembra utile darne conto.

Esso è quello della pregiudiziale nei giudizi risarcitori per lesione dell'interesse legittimo, derivante non tanto dall'emanazione di un provvedimento illegittimo, quanto dal silenzio-inadempimento serbato dall'Amministrazione.

Nel regime previgente, chi scrive riteneva – contrariamente a quanto egli stesso opinava circa i giudizi impugnatori – che non potesse introdursi domanda risarcitoria, per il danno recato dal silenzio amministrativo, se, prima o contestualmente, non fosse stata introdotta l'azione di accertamento del silenzio.

Questo si reputava perché l'azione risarcitoria (art. 2 bis, legge 7 agosto 1990, n. 241) era proponibile entro termini più ampi - e prescrizionali - di quelli decadenziali previsti per la proposizione dell'azione declaratoria silenzio e perché l'azione risarcitoria assumeva, almeno in parte, quale oggetto del proprio accertamento, il medesimo oggetto dell'azione sul silenzio. In entrambi i casi, infatti, l'accertamento si riflette sulla violazione del dovere dell'Amministrazione di pronunciarsi sull'istanza del privato.

Se perciò fosse stato consentito di introdurre l'azione risarcitoria in assenza di quella declaratoria del silenzio, si sarebbe consentito al ricorrente di eludere, sostanzialmente, il termine perentorio indicato dall'art. 21 bis della legge T.A.R. Ciò tanto più appariva grave, tenuto conto dei vincoli conformativi in ordine al dovere di conclusione del procedimento che dall'accoglimento dell'azione risarcitoria stessa sarebbero comunque derivati.

Nel codice, tuttavia, la “pregiudiziale amministrativa”, in materia di azione risarcitoria derivante da silenzio amministrativo, è oggi positivamente esclusa, perché l'art. 30, comma 4, ne parifica il regime a quello, indiscutibilmente autonomo, dell'azione risarcitoria derivante dall'emanazione del provvedimento illegittimo.

La peculiarità dell'ipotesi di regime transitorio ora considerata è, dunque, data dal fatto che il codice sembra avere eliminato una preesistente causa di improcedibilità della domanda.

E se, di tanto, il ricorrente non avrebbe certo motivo di lagnarsi, anche con riferimento alle controversie instaurate prima del 16 settembre 2010, un analogo atteggiamento non sarebbe, invece, condiviso dall'Amministrazione resistente.

Per il principio di parità delle armi, pertanto, si deve escludere che le azioni risarcitorie autonome, collegate al silenzio amministrativo e già pendenti alla data del 16 settembre 2010, risultino “sanate” dalla sopravvenuta normativa. Per il principio di economia degli atti giuridici e per il principio di conservazione degli stessi, potranno, dunque, considerarsi sanate solo le domande autonome, pendenti a quella data, per le quali il ricorrente sia ancora in termine per proporre l'azione declaratoria del silenzio e a patto che essa venga effettivamente avanzata in modo tempestivo.

6. - Problemi di diritto transitorio si pongono poi con riferimento al regime applicabile ai termini processuali.

Al riguardo, come si è visto, l'art. 2 dell'allegato n. 3 contiene una esplicita disposizione derogatoria al principio di immediata applicabilità del codice. Ciò non toglie che, anche in questo caso, emergano problemi applicativi di non trascurabile rilievo.

Del resto, i termini indicati dal codice sono in larga parte cambiati e secondo modalità esse stesse diverse.

Vi è, innanzi tutto, il caso in cui il regime è stato modificato, prevedendo termini processuali almeno apparentemente più estesi.

Ad esempio, il regolamento di competenza, secondo il regime previgente, andava proposto “entro venti giorni dalla data di costituzione in giudizio” (art. 31, legge T.A.R.), mentre l'art. 15 del codice oggi lo ammette “finché la causa non è decisa in primo grado”.

Con riguardo ai giudizi già introdotti alla data del 16 settembre 2010, il controinteressato o l'Amministrazione resistente potranno, pertanto, proporre regolamento di competenza anche dopo il decorso di venti giorni dalla data della loro costituzione, ma prima che la causa sia decisa in primo grado?

Per tali ipotesi, di previsione di un nuovo termine più ampio, è in effetti ragionevole sostenere che si applichi la disciplina sopravvenuta: non tanto per ragioni collegate ad una sorta di favor nei riguardi di chi deve compiere l'attività processuale (perché anche in tal caso si dovrebbe considerare la posizione di chi subisce l'attività medesima), ma perché si può sostenere che, scaduto il termine dettato dal regime previgente, subentri e prenda a decorrere autonomamente, per il residuo periodo di tempo, il nuovo termine indicato dal sopravvenuto codice, il cui dies ad quem è individuato con riferimento a circostanze sopravvenute o ancora esistenti al momento dell'entrata in vigore del codice.

7. - Vi sono, poi, dei casi in cui il codice ha ugualmente introdotto termini più ampi, a patto tuttavia che ricorrano determinate circostanze, giacché viene a mutare l'individuazione del dies a quo, da cui il termine prende a decorrere.

In questa casistica ricorre, ad esempio, il termine per la presentazione del ricorso incidentale. Secondo il vecchio regime, esso andava avanzato entro venti giorni da quello stabilito per il deposito del ricorso principale (art. 22 legge T.A.R.); il codice, invece, prevede il più ampio termine di sessanta giorni, ma a decorrere dalla ricevuta notificazione dello stesso ricorso principale (art. 42).

La maggiore, o minore, ampiezza del termine dettato dal codice dipende, in questi casi, dal momento in cui è stato coltivato il deposito del ricorso principale rispetto al momento in cui è stata eseguita la notifica.

Per esempio, il ricorrente che, il primo giorno successivo alla piena conoscenza del provvedimento impugnato, abbia notificato il ricorso al controinteressato, avrà ancora cinquantanove giorni per notificare l'impugnazione alle altre parti necessarie e, quindi, altri trenta per depositare il tutto. Secondo il vecchio regime, nell'esempio ora proposto il controinteressato avrebbe, dal giorno di ricevuta notificazione, centonove giorni per instaurare il giudizio incidentale. Si tratta, dunque, di un termine ben maggiore rispetto a quello indicato dal codice.

Nel diverso caso, in cui, invece, il controinteressato abbia ricevuto la notifica del ricorso il sessantesimo giorno dalla piena conoscenza del provvedimento impugnato, egli, vigendo il vecchio regime, avrebbe solo cinquanta giorni per presentare il ricorso incidentale; egli godrebbe, dunque, di un termine inferiore a quello previsto dall'attuale codice.

Un discorso analogo potrebbe essere sviluppato, ancora a titolo di esempio, per l'appello e, in generale, per le impugnazioni incidentali (art. 37 T.U. C.d.S e art. 96 del codice).

Stabilito che la nuova disciplina prevede, in certi casi, termini che possono essere più lunghi o più brevi di quelli indicati dal regime anteatto - questi stessi dipendendo dalla diversa e concreta individuazione dell'evento che funge da dies a quo - la conclusione che sembra doversi applicare a questi casi è distinta a seconda che il nuovo termine sia, proprio nel caso concreto, più ampio o più ristretto di quello vecchio.

Applicando il principio qui già utilizzato nell'esaminare la prima forma di casistica, si opina dunque che varrà, alla data del 16 settembre 2010, il termine dettato dalla disciplina previgente, se esso sarà ancora pendente e sarà concretamente più ampio di quello stabilito dal nuovo codice. Varrà, invece, il termine indicato dal codice, ove sarà quest'ultimo ad essere più lungo, perché la sua decorrenza “riemergerà” alla scadenza del primo.

8. - Passando all'esame di ulteriori ipotesi in materia di termini processuali, va detto, tuttavia, che il codice ha dettato, in genere, nuovi termini più ristretti.

Ciò vale, ad esempio, per quanto attiene ai termini, breve e lungo, di appello delle ordinanze cautelari (art. 62 del codice rispetto all'art. 28 della legge T.A.R.), al termine per la riassunzione del processo in caso d'interruzione (art. 24, legge T.A.R. e art. 79 del codice), probabilmente allo stesso termine per l'appello delle sentenze (per chi ritenga che la riforma dell'art. 328 c.p.c., operata dalla legge n. 59/2010, non si estendesse al processo amministrativo) e al termine di perenzione per inattività (oggi abbreviato ad un anno, rispetto al vecchio termine di due anni).

In tali casi - rimanendo immutato, nella vecchia e nella nuova disciplina, il criterio di individuazione del dies a quo - per diretta applicazione dell'art. 2 dell'allegato 3 continueranno ad applicarsi ai giudizi pendenti i vecchi termini; né nuovi termini potranno cominciare a decorrere ex novo dal 16 settembre 2010, perché in tal caso il dies a quo va individuato con riferimento al momento in cui i (vecchi) termini hanno cominciato a decorrere e non, aprioristicamente, nella medesima data del 16 settembre.

9. - Vi è poi il problema dei termini a ritroso.

Essi riguardano, essenzialmente, il termine per la produzione di memorie e documenti, in primo e secondo grado, prima dell'udienza di trattazione della causa.

Circa tale aspetto, il problema incide non solo sull'individuazione del termine corretto, ma anche sull'individuazione del più generale regime processuale applicabile, dal momento che il codice ha previsto le c.d. memorie di replica, sconosciute, invece, nel vecchio sistema.

Il termine di deposito dei documenti, secondo il codice, è indubbiamente, e sempre, più ristretto rispetto a quello previgente. Ciò vale sia con riferimento al giudizio di primo grado sia con riferimento al grado di appello. Rispetto ai vecchi termini (di venti giorni in primo grado, di trenta, davanti al Consiglio di Stato), il nuovo termine è stato, infatti, anticipato a quaranta giorni liberi prima dell'udienza.

I termini per il deposito delle memorie sono stati essi stessi anticipati, perché oggi esse debbono essere prodotte trenta giorni liberi prima dell'udienza.

Il termine per le memorie di replica è, invece, del tutto nuovo per i giudizi di ogni grado.

Per cercare di definire il regime transitorio, pare a chi scrive che si debba, innanzitutto, distinguere il caso in cui, alla data del 16 settembre 2010, risulti essere già stata fissata l'udienza, dal caso in cui ciò non sia avvenuto.

Nella seconda ipotesi e, pertanto, in mancanza della concreta individuazione - alla data del 16 settembre 2010 - del dies a quo (ancorché a ritroso), sebbene il deposito di memorie e di documenti sia comunque consentito, ciò avviene in mancanza della pendenza di termine alcuno. Per tale caso, quindi, non potrà sostenersi, che il termine di deposito sia “in corso alla data di entrata in vigore del codice” (art. 2, allegato n. 3). Pertanto - per le controversie pur instaurate prima del 16 settembre, ma a riguardo delle quali venga fissata l'udienza dopo quella data - dovranno applicarsi integralmente i termini previsti dal codice.

Diversamente, per le controversie in cui, alla data del 16 settembre 2010, sia già stata fissata l'udienza di trattazione della controversia, non vi è ragione di escludere l'applicazione del regime dettato dalla disciplina previgente, perché in tal caso, appunto, il termine è “in corso alla data di entrata in vigore del codice”.

Poiché per tale ipotesi il termine per il deposito delle memorie ordinarie previsto dal termine previgente coincide con quello, previsto dal codice, per il deposito delle memorie di replica, queste ultime debbono ritenersi escluse.

Esse vanno escluse per effetto della descritta coincidenza; diversamente, dal momento che tale termine non era previsto dalla disciplina previgente perché non erano previste neppure le memorie di replica, esse dovrebbero considerarsi astrattamente ammissibili.

Esse, invece, devono ritenersi in futuro consentite anche a riguardo dei giudizi già instaurati (art.2, allegato n. 3) , ma per i quali, alla data del 16 settembre 2010 non risulti essere stata già fissata udienza.

10. - Queste ultime considerazioni introducono l'ulteriore problema di valutare il regime applicabile, nel caso in cui siano previsti, dal codice, termini del tutto nuovi, perché dapprima in nessun modo disciplinati.

Oltre al caso, appena ricordato, delle memorie di replica, l'esempio più significativo è indubbiamente illustrato dal termine di decadenza per la proposizione, in pendenza del giudizio, della domanda risarcitoria per lesione dell'interesse legittimo (art. 30, comma 3, del codice; quello indicato dal comma 5, invece, è probabilmente un termine di prescrizione).

Questo celebre, e tanto criticato, termine di centoventi giorni non decorre tuttavia dalla proposizione del ricorso principale, volto ad ottenere l'annullamento del provvedimento impugnato o la declaratoria del silenzio.

Esso decorre, invece, “dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo”.

Si deve dunque, a parere di chi scrive, distinguere con riguardo a tutte le cause pendenti al momento di entrata in vigore del codice: a) il caso in cui il fatto generatore del danno sia avvenuto prima del 16 settembre 2010 dal caso - b) - in cui, anche con riguardo ai giudizi già instaurati a quella data, un tanto sia avvenuto dopo quella data.

Per l'ipotesi in cui il danno derivi direttamente “dalla conoscenza del provvedimento”, si può dare, invece, per postulato che, per tutte le cause pendenti al momento di entrata in vigore del codice, esso rientri sempre nel caso indicato sub a), perché il provvedimento, se il giudizio è in quella data già stato instaurato, non può non essere conosciuto dal ricorrente. Questo caso, pertanto, seguirà sempre il regime dell'ipotesi appena indicata sub a), quale ora ci si accinge a prospettare.

Per l'ipotesi sub b), sembra ragionevole sostenere, infatti, che troverà immediata e diretta applicazione la disciplina decadenziale indicata dal codice, stante il fatto che detto termine inizierà a decorrere, per la prima volta, quando il medesimo codice sarà già entrato in vigore e perché il dies a quo si prospetterà esso stesso dopo tale data.

Diversamente, per l'ipotesi sub a), pare corretto sostenere che non gravi sulla parte istante termine alcuno, giacché il regime previgente non contemplava nessun termine per la proposizione della domanda risarcitoria (fatto salvo quello di prescrizione). D'altronde, far decorrere, invece, il termine decadenziale di centoventi giorni dal 16 settembre 2010 – quando cioè entrerà in vigore il codice – non appare ipotesi sostenibile, stante il fatto che, in tal modo, verrebbero a sostituirsi i criteri per l'individuazione del dies a quo trasferendolo dal fatto generatore del danno al momento di entrata in vigore del codice, senza che la sopravvenuta normativa autorizzi una detta operazione interpretativa di carattere, sostanzialmente, creativo in materia - quella della perentorietà dei termini di decadenza - in cui non dovrebbero essere ammesse interpretazioni estensive o “adeguatrici”.

In generale, con riferimento ai termini integralmente “nuovi”, il principio generale sembra essere, dunque, quello secondo cui essi si applicano anche alle cause già instaurate prima del 16 settembre 2010, purché il dies a quo sopravvenga rispetto a quella stessa data. Nel caso in cui ciò non avvenga i nuovi termini non saranno radicalmente applicabili alle cause già introdotte prima di quella data.

11. - Si deve passare, a questo punto, ad esaminare il problema del regime transitorio, con riferimento ai nuovi poteri del giudice.

Di tale problema si è già trattato con riferimento al peculiare caso del regime dell'incompetenza territoriale e della pregiudiziale sull'azione risarcitoria derivante dal silenzio amministrativo. Ora ora esso va affrontato, sia pur sommariamente, nei suoi aspetti generali.

Sul punto, sembra che si debba distinguere, secondo che i nuovi poteri incidano sul contenuto dei provvedimenti di accertamento che il giudice è chiamato ad assumere o che incidano, invece, sulle modalità di prosecuzione del processo o sulla forma degli atti del giudice stesso.

12. - Il primo corno del problema va esso stesso composto, dovendosi dividere le ipotesi in cui il nuovo contenuto dei provvedimenti giudiziari di accertamento e di decisione attenga alla procedibilità delle domande di parte già presentate alla data del 16 febbraio, dalle ipotesi in cui il giudice ha acquisito nuovi poteri di accertamento o di decisione, esercitabili autonomamente e d'ufficio.

La prima (sotto)ipotesi non trova frequenti casi di applicazione nel codice, dal momento che - soprattutto dopo la revisione del testo di disegno di legge operata in sede di approvazione preliminare da parte del Consiglio dei Ministri - la tipologia dei provvedimenti che il giudice può assumere, su istanza delle parti, non è molto diversa da quella previgente.

Soprattutto, i nuovi poteri del giudice non sono, in generale, inferiori o più ristretti rispetto a quelli dapprima previsti. Pertanto, le domande oggettivamente proponibili sulla base del vecchio regime continuano ad esserlo, in via di massima, anche oggi.

In alcuni casi, tuttavia, il codice pure ha operato alcune di tali restrizioni. Ci si riferisce, in ispecie, al processo cautelare, dal momento che l'art. 55, comma 10, consente al giudice, “se ritiene che le esigenze del ricorrente siano apprezzabili favorevolmente e tutelabili adeguatamente con la sollecita definizione del giudizio nel merito”, di fissare “con ordinanza collegiale la data di discussione del ricorso nel merito”.

Sembra di capire che, sulla base di questa disposizione, il giudice possa oggi esimersi dal dovere di pronunciare sull'istanza cautelare secondo la sua autonoma valutazione (e indipendentemente da un'eventuale rinunzia al rimedio, manifestata dalla parte), purché venga fissata in tempi brevi l'udienza di trattazione.

In disparte i problemi di costituzionalità che una siffatta norma suscita in sé (problemi indipendenti dal regime transitorio e che, perciò, in questa sede non si ritiene utile approfondire), vi è da chiedersi se la stessa possa applicarsi anche a quei procedimenti cautelari avviati prima dell'entrata in vigore del codice e che non siano stati ancora definiti.

Anche la soluzione di questo problema, probabilmente, va ricercata nel principio generale d'immediata applicazione della nuova disciplina, quale si ricava dall'art. 2 dell'allegato 3, sicché la risposta al quesito sembra dover essere di segno positivo.

13. - Analoga risposta – e sulla base del medesimo principio – sembra doversi fornire anche quando i nuovi poteri di accertamento siano esercitabili d'ufficio.

Il riferimento, in questo caso, attiene al regime dell'actio nullitatis, che è indubbiamente una delle nullità più significative del nuovo processo.

Senza volere proporre qui un'interpretazione troppo approfondita della disposizione, tale azione sembra essere stata ristretta dall'art. 31 alle forme di c.d. “nullità testuale” e non anche alle ipotesi di difetto di attribuzione o di mancanza degli elementi essenziali dell'atto. Diversamente, non sembrerebbe possibile spiegare perché detta disposizione stabilisca che la relativa azione si riferisca alle sole “nullità previste dalla legge”.

L'istituto, in ogni caso, suggerisce, proprio sotto il profilo del regime transitorio, una pluralità di considerazioni che superano anche il problema dei poteri esercitabili dal giudice in via d'ufficio.

Infatti, la medesima azione è innanzi tutto esperibile, in via principale, dall'interessato entro un termine, ancora una volta decadenziale, di centottanta giorni (evidentemente dalla conoscenza del “provvedimento”).

Il già invocato principio di parità delle armi (invocabile, se volessimo seguire, nuovamente, un'interpretazione costituzionalmente orientata) sembrerebbe suggerire che - non essendo stata, tale azione, positivamente prevista prima dell'emanazione del codice davanti al giudice amministrativo - le eventuali actiones nullitatis proposte prima del 16 settembre 2010 non potrebbero ritenersi ammissibili.

In detto peculiare caso, tuttavia, questa non è probabilmente la soluzione più corretta.

Se, infatti, si volesse sostenere che le già instate (e tuttora pendenti) actiones nullitatis fossero inammissibili per difetto di giurisdizione, si dovrebbe tuttavia consentire a chi le ha, a suo tempo, proposte di riassumerle, secondo il criterio della translatio iudicii, davanti al giudice ordinario, dal momento che questo giudice era appunto giurisdizionalmente competente a conoscere della nullità dei provvedimenti amministrativi (ivi comprese le nullità testuali) prima dell'emanazione del codice.

Ma, oggi, questo non sarebbe, probabilmente, possibile, perché la riassunzione, a seguito di translatio iudicii, così come essa è disciplinata dall'art. 11 del codice, non sembra alludere ad una forma di prosecuzione dell'originario giudizio, ma alla instaurazione di un giudizio nuovo e autonomo. E oggi, vale a dire dopo il 16 settembre, è giurisdizionalmente competente a conoscere delle actiones nullitatis il giudice amministrativo, non già il giudice ordinario.

La “riproposizione” dell'azione di nullità, a seguito di translatio iudicii, delle cause avanzate prima del 16 settembre non sarebbe dunque possibile, per il sopravvenuto difetto di giurisdizione del giudice a quo. Di talché, tutelare la parità delle armi, secondo quanto si è prospettato, si risolverebbe, a tutti gli effetti, nel negare tutela al ricorrente, perché egli non avrebbe più alcun giudice al quale potersi rivolgere. E questa pare essere, proprio sotto un rilievo di conformità costituzionale (art. 24 e, ancora una volta, art. 111 Cost.), una conseguenza assai più grave del vulnus arrecato al principio di parità.

La conclusione alla quale si ritiene dovere aderire, pertanto, è quella di ritenere che la actiones nullitatis, pendenti al momento dell'entrata in vigore del codice, debbano considerarsi “sanate” dalla sopravvenuta normativa. Quanto al termine decadenziale per esse stabilito, esso non potrà applicarsi alle medesime controversie, stante il fatto che trattasi di termine “nuovo” e giusta quanto precedentemente osservato al punto 8.

Ma dell'azione di nullità ci si era ripromessi di trattare soprattutto con riferimento ai poteri d'ufficio del giudice. E, in effetti, l'art. 31 del codice prosegue stabilendo che “la nullità dell’atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice”.

Trattasi, dunque, di un potere di accertamento nuovo, dapprima non contemplato. In forza degli artt. 2 e 3 dell'allegato 3 e del principio generale di immediata applicazione del codice, non sembra tuttavia che possa essere negato che un tale potere sia esercitabile dal giudice anche con riferimento alle controversie già instaurate. Allo stesso modo, deve ritenersi esercitabile pure anche con riferimento alle medesime controversie, il potere di eccepire la nullità riconosciuto alla parte resistente (e perché non alla controinteressata?).

14. - Resta, infine, da trattare il problema dei poteri del giudice che non si riflettono sul contenuto dei poteri decisionali, ma attengano alle modalità di svolgimento del giudizio.

In linea di massima, i relativi problemi sembrano dovere essere risolti alla luce del principio generale d'immediata applicazione del codice.

Questo vale, ad esempio, in merito alla forma dei provvedimenti del giudice (dal momento che il Collegio non decide più sulle istanze istruttorie con sentenza, ma con ordinanza), al potere di abbreviazione dei termini previsto dall'art. 53, alle nuove modalità di presentazione delle istanze cautelari e ai relativi termini.

Un particolare rilievo sembra doversi riconoscere al nuovo regime istruttorio, poiché esso appare, oggi e a prima vista, maggiormente sbilanciato verso il sistema dispositivo (art. 63, comma 1) di quanto non fosse in passato.

Anche a riguardo di tale aspetto del processo amministrativo, sembra doversi applicare il regime sopravvenuto. Ciò, dunque e tra l'altro, sembra valere anche per quanto attiene i presupposti di esperibilità della consulenza tecnica, oltre che per le formalità di assunzione di tale peculiare strumento (di competenza, oggi, del solo Collegio).

L'art. 63, infatti, ne subordina la disponibilità ai soli casi in cui la stessa appaia “indispensabile”; diversamente le deve essere preferita la verificazione.

Anche qui non ci si soffermerà sui problemi di costituzionalità che paiono emergerne; ai nostri fini basterà osservare che la nuova norma, disciplinando il modo con cui il giudice dovrà guidare in futuro la fase istruttoria, sembra pienamente applicabile anche ai giudizi già pendenti.

15. - Esso stesso collegato al problema delle verificazioni e delle consulenze tecniche è il problema della sindacabilità, nel giudizio amministrativo, della discrezionalità tecnica.

Anche sul punto il codice sembra avere innovato. Infatti, il già citato art. 63 ammette questi strumenti istruttori non solo quando si tratti di accertare fatti obiettivi (e si ricada dunque in ipotesi di accertamento tecnico), ma anche quando tocchi acquisire “valutazioni che richiedono particolari competenze tecniche” e si ricada dunque nei c.d. “concetti giuridici indeterminati”.

Se in tale disposizione si vorrà ravvisare l'ingresso ormai conclamato della piena sindacabilità della discrezionalità tecnica (la questione, però, merita un maggiore approfondimento), si porrà anche il problema di stabilire se la medesima norma si possa estendere anche alle controversie già pendenti.

È questo un punto sul quale, tuttavia, sussistono maggiori incertezze, rispetto ai problemi di diritto transitorio da ultimo considerati, dal momento che il nuovo regime, a ben vedere, finirebbe per riguardare i nuovi poteri di accertamento del giudice, cosicché, circa le cause già instaurate, potrebbe essere ancora una volta invocato, a tutela delle parti resistente e controinteressata, il principio di parità delle armi.

16. - Chi scrive non ha la pretesa di avere individuato tutti i problemi di diritto transitorio che l'entrata in vigore del codice farà emergere. Essi emergeranno via via che l'applicazione concreta del codice li metterà in evidenza.

Si ritiene, tuttavia, di avere fornito alcuni spunti per un'indagine sul tema che si prospetta essere di certa rilevanza e di notevolissima attualità.


 

 

Ultimo aggiornamento ( domenica 07 novembre 2010 )
 
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