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La Corte Costituzionale ha dichiarato la non conformità a Costituzione dell’Articolo 43 d.PR 327/01 PDF Stampa E-mail
martedì 19 ottobre 2010

di GIOVANNI ATTILIO DE MARTIN

Porto all’attenzione dei lettori del sito la circostanza che la Corte Costituzionale, con la recentissima sentenza n. 293/2010 del 4 – 8 ottobre 2010 (Presidente Amirante, Estensore Tesauro) ha dichiarato la non conformità a Costituzione dell’Articolo 43 del D.p.r. n. 327/2001 e, pertanto, del meccanismo della cc.dd. acquisizione “sanante”.  Di siffatta problematica già mi ero occupato con un intervento, pubblicato sul sito in data 12 gennaio 2009, nel quale mi ponevo il dubbio se l’istituto introdotto dall’Articolo 43 del Testo Unico in materia di espropriazioni per causa di pubblica utilità fosse compatibile con la Costituzione e con la C.E.D.U., giungendo, al termine di argomentazioni piuttosto articolate e complesse, a denegare siffatta compatibilità. Ma quali, in sintesi, sono i principi che hanno condotto la Corte a dichiarare l’incostituzionalità dell’Articolo 43 del D.p.r. n. 327/2001 e quali le principali e concrete conseguenze di una siffatta sentenza? Nelle piuttosto corpose e dettagliate motivazioni della statuizione giurisdizionale de qua il Giudice delle leggi ha esternato le ragioni della declaratoria di illegittimità costituzionale della prescrizione normativa sottoposta al proprio vaglio. Trattasi, di primo acchito, di ragioni formali che, tuttavia ed a ben ragionare, impingono anche la sostanza del fenomeno dell’occupazione appropriativa (e non solo di essa, come vedremo) e della conseguente acquisizione “sanante” da parte della P.A. Come ben noto, la Legge di delegazione n. 50/1999 aveva affidato al Potere Esecutivo il compito di riordinare e coordinare la complessa materia disciplinante le espropriazioni per causa di pubblica utilità, normativa contenuta (essenzialmente, ma non solo) nelle Leggi n. 2359/1865 e n. 865/1971. La Legge delega, scrive la Corte Costituzionale nella sentenza n. 293/2010 “aveva conferito al Legislatore delegato il potere di provvedere ad un coordinamento formale relativo alle disposizioni vigenti”. Per contro, l’istituto dell’acquisizione “sanante”, così come creato e disciplinato dall’Articolo 43 del Testo Unico, si manifesta “connotato da numerosi aspetti di novità, rispetto sia alla disciplina espropriativa oggetto delle disposizioni espressamente contemplate nella legge delega, sia agli istituti di matrice prevalentemente giurisprudenziale”. Ad avviso dell’Organo di costituzionalità (ed ecco l’elemento maggiormente interessante, sotto il profilo sostanziale e sistematico) la disposizione normativa della cui costituzionalità si discuteva assimilava in sé (erroneamente) due istituti giuridici i quali dovevano e debbono essere tenuti fra loro nettamente distinti: la cc.dd. “accessione invertita”, da un lato, la quale si caratterizza per l’esistenza di anomalie (rectius, invalidità) nell’iter espropriativo (prevalentemente la sua omessa conclusione con l’adozione di un provvedimento amministrativo autoritativo di natura ablativa) e la cc.dd. “occupazione usurpativa”, dall’altro lato, caratterizzata, ad avviso della costante e pacifica giurisprudenza, dall’assenza (originaria ovvero sopravvenuta) della dichiarazione di pubblica utilità. Pertanto, ad avviso della Corte Costituzionale l’Articolo 43 del D.p.r. n. 327/2001 “…………. introducendo la possibilità per l’Amministrazione e per chi utilizza il bene di chiedere al Giudice Amministrativo, in ogni caso e senza limiti di tempo, la condanna al risarcimento del danno in luogo della restituzione” (estendendo, peraltro, tale disciplina alle servitù “rispetto alle quali la giurisprudenza aveva escluso l’applicabilità della cosiddetta occupazione appropriativa” e spostando in avanti nel tempo l’effetto traslativo al momento di adozione del provvedimento amministrativo di acquisizione) ha introdotto “elementi di sicuro rilievo e qualificanti, i quali dimostrano che la norma in esame non solo è marcatamente innovativa rispetto al contesto normativo di cui era consentito un mero riordino, me neppure è coerente con quegli orientamenti di giurisprudenza che, in via interpretativa, erano riusciti a porre un certo rimedio ad alcuni gravi patologie emerse nel corso dei procedimenti espropriativi”. La declaratoria di incostituzionalità dell’Articolo 43 del Testo Unico in materia espropriativa si fonda, altresì, su di un precedente della medesima Corte Costituzionale dell’anno 2007 laddove l’Organo della costituzionalità aveva sottolineato che “per quanta ampiezza possa riconoscersi al potere di riempimento del Legislatore delegato, il libero apprezzamento di quest’ultimo non può mai assurgere a principio o criterio direttivo”.

Quanto alle conseguenze della sentenza in disamina, quid juris?

In via generale ed astratta è certamente vero e non contestabile, da alcun punto di vista e sotto nessun profilo, che la pronuncia della Corte Costituzionale n. 293/2010 è retroattiva ma, altrettanto vero e non contestabile, è che essa rinviene un ostacolo insormontabile costituito alle posizioni giuridiche già consolidatesi. Ora, posto che la declaratoria di illegittimità costituzionale ha ad oggetto sia il fenomeno dell’ “occupazione appropriativa” che il diverso fenomeno della cc.dd. “occupazione usurpativa” pare ragionevole e consono rispetto ai principi civilistici in materia di usucapione che la P.A., ovvero il soggetto beneficiario della procedura espropriativa, risultino obbligati alla restituzione dell’area illegittimamente od illecitamente appresa al privato (nonché al risarcimento del danno per gli anni di intervenuto spossessamento) per un periodo pari ad anni venti, decorrente dalla data di presa in possesso da parte della medesima P.A. Ovviamente, un siffatto diritto rimane escluso qualora sia intervenuta fra privato ed Amministrazione espropriante una formale e rituale cessione volontaria del bene ovvero qualora sia stato adottato un provvedimento, non impugnato né più, allo stato, impugnabile, che dichiari acquista l’area, ex Articolo 43 del D.p.r. n. 327/2001. Come detto in precedenza, la restituzione va richiesta al soggetto beneficiario della procedura espropriativa vale a dire all’attuale titolare del diritto di proprietà del bene. Irreversibili sono solamente le situazioni che non consentono un utilizzo privato dell’area: ad esempio, una scuola, un Centro Civico, una Casa per anziani, un parco pubblico sono tutte opere reversibili ossia certamente utilizzabili anche dai privati. Le predette, una volta restituite, conservano la medesima destinazione d’uso, ma diventano di proprietà privata. La valutazione in merito alla possibilità, o meno, di restituire l’opus andrà, comunque, compiuta caso per caso anche in considerazione di quanto prevede l’Articolo 2933, comma II^, del Codice Civile: ad esempio, un’area che appartenga ad un complesso tracciato stradale già utilizzato dalla collettività non può essere restituita all’originario proprietario in quanto, nella concreta fattispecie, nel contemperamento e bilanciamento degli interessi confliggenti, prevale l’interesse pubblico siccome positivamente codificato nella norma del Codice Civile sopra ricordata. Infine, per quanto concerne le modalità di restituzione, quest’ultima avviene in favore del privato senza che egli debba corrispondere alcunché in favore della Pubblica Amministrazione; anzi, come in precedenza accennato, è la P.A. che risulta giuridicamente obbligata a pagare al privato una somma di denaro a titolo di risarcimento del danno da illegittima ovvero illecita occupazione del bene. Ovviamente, poiché quod inedificatur solo cedit, la restituzione del lotto di terreno fatto oggetto di illegittima ovvero di illecita procedura espropriativa comporta, altresì, la restituzione del manufatto sovrastante (come detto, senza oneri a carico del privato); e detta opus, previa richiesta del proprietario, potrebbe essere addirittura eliminata (demolita), a cura e spese della Pubblica Amministrazione occupante abusiva. Infine, qualora il cittadino, in luogo della restituzione, avesse richiesto od intenda richiedere la condanna della P.A. al risarcimento dei danni il citato importo, ad avviso di talune pronunce della Corte di Giustizia dei Diritti dell’Uomo, sarebbe dovuto essere pari non solamente al valore del terreno bensì anche al valore della costruzione soprastante. Solo dal dicembre 2009 (controversia n. 58858/2000) la Corte ha modificato il proprio precedente orientamento giurisprudenziale limitando il valore del risarcimento all’importo del valore venale dell’area illecitamente appresa alla mano pubblica, maggiorato dagli interessi moratori nonché dalla somma (a titolo di lucro cessante e perdita di chance) pari alle occasioni di valorizzazione che il privato abbia perdute (ad esempio, documentate offerte di acquisto dell’area, proposta di locazione dell’area medesima e così via).

Ciò detto, esposto ed argomentato, come sempre, attendiamo (con una certa curiosità) le prime pronunce giurisprudenziali in merito.

Il presente modesto contributo riflette, come sempre, unicamente le opinioni di colui che lo ha redatto.

Padova, lì 18.10.2010                                                                          

Giovanni Attilio De Martin

Ultimo aggiornamento ( giovedì 21 ottobre 2010 )
 
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