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La compartecipazione dei Comuni agli utili delle proprie scelte urbanistiche. PDF Stampa E-mail
domenica 07 novembre 2010

di STEFANO BIGOLARO

1) I nuovi istituti della L.R. 11: al di là del nome

Il tema della compartecipazione dei Comuni ai benefici derivanti dalle loro scelte pianificatorie è di regola ricondotto, nella situazione attuale del Veneto, al termine di perequazione urbanistica.

E dunque, a voler brevemente valutare come essa sia ora intesa e applicata, il punto di partenza non può che essere la legislazione urbanistica regionale, che conosce i nuovi istituti previsti dalla L.R. 11/2004: la perequazione urbanistica, appunto (di cui all’art. 35), la riqualificazione ambientale e il credito edilizio (art. 36), la compensazione urbanistica (art. 37).

Ma, a livello degli enti locali, tali istituti sono utilizzati spesso in forme diverse da quelle introdotte dal legislatore. Restano i nomi, ma per indicare contenuti diversi da quelli previsti dalle norme[1]; e, a loro volta, per indicare contenuti diversi per ciascun Comune (e più o meno presentabili, a seconda della sensibilità urbanistica o della sfrontatezza di ciascuna amministrazione). Quindi, il primo problema è quello di capire come gli istituti sono in concreto utilizzati, per comprendere la sostanza delle cose al di là dei nomi.

E tali istituti sono spesso utilizzati per finalità deviate: sostanzialmente, per ovviare all’ormai sempre più evidente mancanza di risorse degli enti locali, e quindi all’oggettiva incapacità di provvedere a interventi anche di minima sul territorio (o in altri settori ancora)[2]. Dunque, il secondo problema diventa quello di valutarne la legittimità sotto tale profilo.

E’ infatti appena il caso di rilevare che – stando alle definizioni del legislatore regionale - la perequazione non doveva essere uno strumento di finanza locale, ma doveva invece perseguire “l’equa distribuzione, tra i proprietari degli immobili interessati dagli interventi, dei diritti edificatori riconosciuti dalla pianificazione urbanistica e degli oneri derivanti dalla realizzazione delle dotazioni territoriali”; e i crediti edilizi non servivano certo ai Comuni per avere risorse economiche, ma per eliminare gli elementi di disordine urbanistico.

Il punto fondamentale è che si tratta di istituti al servizio, in ogni caso, di un progetto urbanistico, senza il quale gli strumenti anche più innovativi sono vuoti; e finiscono per essere utilizzati dagli enti locali come forme nuove per operazioni di modesto (o di nessun) significato urbanistico.

La questione è dunque, in concreto: che giudizio giuridico si deve dare sulle molte e diverse regolamentazioni che vanno sotto il nome di perequazione, e che sono ora contenute – in particolare - nei sempre più frequenti PAT veneti? (norme che meriterebbero di essere raccolte e messe a confronto, magari a cura della Regione, o forse a cura di ciascuna Provincia, cui è in fase di passaggio la competenza all’approvazione degli strumenti strategici).

Sono legittime? In quali casi e a quali condizioni possiamo ritenere che siano legittime?

Sono discipline che spesso non c’entrano con l’istituto della perequazione - che in senso proprio è altra cosa, avendo riferimento alla suddivisione di oneri e diritti tra proprietari di immobili (almeno, alla stregua dell’art. 36 L.R. 11)- e che pertanto ne ampliano e alterano il significato.

2) Più ripartizione che perequazione

Il comun denominatore: sono regolamentazioni urbanistiche che prevedono che il privato ceda una parte dell’utilità che acquisisce per effetto della pianificazione urbanistica comunale.

Al di là delle riflessioni generali sullo statuto della proprietà fondiaria, e pur in mancanza di una legislazione di principi al riguardo, ciò sembra in qualche misura essere divenuto conforme al comune sentire: e, sotto tale profilo, più che di perequazione si potrebbe parlare di ripartizione con l’amministrazione pubblica dei benefici che derivano al privato dalle scelte urbanistiche di quest’ultima. L’obiettivo, in tale ripartizione, è la ricerca di un punto di equilibrio tra le pretese pubbliche e l’interesse del privato, affinché quest’ultimo non sia del tutto insoddisfatto (pena l’irrealizzabilità dell’intervento e dunque la vanificazione anche delle corrispondenti pretese pubbliche).

Queste regolamentazioni urbanistiche, dunque, di solito prevedono (o prefigurano) che il proprietario – alla cui area viene riconosciuta una certa edificabilità –ceda una percentuale dell’edificabilità e/o dell’area perché il Comune ne faccia ciò che ritiene meglio (realizzi sull’area ceduta opere pubbliche, o le faccia realizzare al privato, ma anche la venda, vi faccia atterrare volumi, realizzi interventi di edilizia pubblica, ecc.); o che comunque sopporti oneri straordinari connessi alla riqualificazione del territorio. A parte, poi, l’ipotesi più ampia (art. 37 L.R. 11) della cessione all’amministrazione di tutta l’area e della corrispondente compensazione urbanistica, con la trasmigrazione dell’edificabilità altrove.

Sotto questo profilo, le situazioni su cui sono ora intervenute le note pronunce del Consiglio di Stato[3] sono certo differenti tra loro: il sistema perequativo padovano, basato sulla cessione dei quattro quinti dell’area per poter edificare nel quinto residuo una volumetria che è attribuita a tutta l’area (benché ridotta), è evidentemente ispirato dalle difficoltà derivanti dai vincoli e dalla loro non reiterabilità[4]. Ed è diverso dal sistema romano, basato sul riconoscimento di un nucleo minimo di edificabilità, e sul riconoscimento di un’ulteriore edificabilità solo a condizione che il privato ne ceda una parte o si renda disponibile a ulteriori apporti – contributi - straordinari, in ragione della zonizzazione e tipologia dei vari suoli.

Ma, al di là della peculiarità delle due applicazioni della perequazione (a Padova non c’è l’idea dell’eventuale incremento della cubatura edificabile quale facoltà ulteriore rispetto ad un nucleo di edificabilità base), il concetto di fondo è il medesimo: l’attribuzione di edificabilità ad un’area non è una scelta pianificatoria unilaterale di cui il privato è mero destinatario, ma si accompagna comunque ad una ripartizione, ad una riserva di parte dei benefici a favore della pubblica amministrazione.

3) Presupposti e fondamento: la motivazione urbanistica alla base della perequazione

Il presupposto (giuridico ed urbanistico) di questa logica ripartitoria è quello, evidentemente, della non inerenza dell’edificabilità al suolo: essa può essere attribuita solo dalla pianificazione urbanistica; e non tutta l’edificabilità concretamente attribuibile ad un’area deve essere riconosciuta in blocco e senza condizioni.[5] Presupposto del tutto ragionevole, ma pur sempre problematico (in mancanza di certezze normative al riguardo).

Il fondamento giuridico forse più in grado di dare giustificazione a simili discipline, secondo le consuete categorie, sembra quello degli standard pubblici (almeno finché non intervenga una normativa statale – una legge quadro sul territorio – in grado di porre idonei principi in tema di conformazione della proprietà fondiaria). L’amministrazione consente che un’area sia edificabile, purché – nel realizzare l’intervento – vi sia un concorso del privato alla necessaria dotazione di spazi pubblici, di attrezzature e infrastrutture; concorso anche molto consistente, se si tratta di dotare di standard zone che ne hanno una carenza pregressa o comunque di intervenire in situazioni peculiari (che quindi rendono necessaria l’acquisizione di extra-standard).

E ciò a prescindere da riflessioni più ampie, sulla funzione sociale della proprietà privata (quale delineata dall’art. 42 della Costituzione); e a prescindere – per altro verso – da affermazioni legislative non ben sviluppate, come quelle di cui all’art. 1, co. 259, della legge 244/2007.

Non pare, peraltro, che discipline perequative quali quelle concretamente contenute nei primi PAT approvati nel Veneto rispondano sempre a questo schema.

Se l’idea di fondo di recuperare standard mancanti può essere, sotto il profilo giuridico, quella più in grado di giustificare simili previsioni, è chiaro che – per poterla invocare - vi deve essere una specifica motivazione urbanistica delle scelte compiute (sotto tale profilo, sembrano cose diverse tra loro, da un lato, la richiesta di una dotazione aggiuntiva di aree pubbliche e infrastrutture ritenute necessarie all’intervento edilizio; dall’altro lato, la richiesta al privato della cessione di percentuali dell’edificabilità attribuita ad un’area). Ed è chiaro altresì, sotto diverso profilo, che la richiesta di standard può giustificarsi, di norma, laddove è prescritto un piano attuativo (a partire dalla generale previsione dell’art. 41 quinquies, co. 8 e 9, della legge urbanistica del 1942 nonché del risalente D.M. 1444/1968), più che negli interventi diretti (anche se è noto il rilievo della previsione generale di cui all’art. 31 co. 5 l. 1150/1942, ora art. 12 T.U. edilizia).

Con questi limiti – tuttavia – tali discipline possono forse essere legittime, anche se non si tratta di perequazione – almeno, ai sensi dell’art. 35 L.R. 11 - ma di qualcos’altro.

Il rischio è naturalmente che si configuri la violazione dell’art. 23 Cost. (ai sensi del quale nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge). E il punto non è certo risolto in giurisprudenza: cfr ad es. TAR Lombardia, Brescia, 12.10.2010 n.4026, che – richiamando il precedente di Cass. Civ., sez. unite, 13/6/2008 n. 15914 – proprio sulla scorta dell’art. 23 Cost. e della mancanza di un fondamento legislativo ha escluso la “potestà comunale di richiedere al privato il concorso all’approntamento di infrastrutture in relazione a un edificio che ha già assolto il contributo agli oneri di urbanizzazione in sede di rilascio del permesso di costruire”.

4) Le scelte pianificatorie, il denaro e le opere

Maggiori dubbi si pongono per quelle norme che consentono al privato di ottenere una cubatura edificabile dietro corresponsione di somme di denaro: ad es., pagando contributi straordinari, magari non diretti ad opere di riqualificazione territoriale legate all’intervento, o monetizzando la percentuale della sua area o della sua potenzialità edificatoria che altrimenti dovrebbe cedere al Comune.

Il punto è di vedere a che serve la corresponsione di denaro; perché, se serve ai Comuni solo per farsi dare dei soldi, la logica di simili disposizioni non pare difendibile. E, in ogni caso, deve esservi una sorta di pregiudizio negativo: lo scopo di acquisire introiti monetari può infatti di per sé sviare il pianificatore comunale nel corretto esercizio della sua potestà.

Ma, anche a prescindere dai rischi evidenti connessi alle situazioni in cui le scelte urbanistiche si accompagnano a dazioni di denaro, comunque la richiesta del concorso del privato alla realizzazione di opere non direttamente correlate al suo intervento presenta il pericolo di uno sviamento nell’attività delle amministrazioni.

Non può invero legittimarsi l’introduzione di una sorta di “gabella” che venga individuata dall’amministrazione di volta in volta, nella fase di negoziazione dell’intervento: l’indicazione delle opere necessarie a consentire l’intervento va evidentemente spostata alla fase della pianificazione generale, e non a quella dell’approvazione del piano attuativo o – peggio - del rilascio del titolo. A pena di esporsi maggiormente a quella censura di violazione dell’art. 23 Cost. di cui sopra si è detto.

5) Basta dire che il privato è d’accordo?

Naturalmente, il problema di dare fondamento giuridico alla cessione di aree o di denaro all’amministrazione si pone in forma meno grave per gli accordi (e, in specie, per gli accordi di pianificazione dell’art. 6, L.R. 11, che normalmente hanno contenuti perequativi, almeno nell’accezione estensiva che si è fin qui esposta): sono accordi, e dunque nulla viene imposto al privato, che si obbliga a ciò che vuole. E’, insomma, la differenza tra il consenso e la confisca.

Però a condizione che siano veri accordi, e non patti imposti.

Se sono veri accordi, caratterizzati dalla facoltatività, paiono invero pertinenti i riferimenti agli articoli 1, co. 1 bis, e 11 della legge 241/90 (sulla possibilità per le amministrazioni di ricorrere agli strumenti convenzionali) contenuti nella pronuncia del Consiglio di Stato sul caso romano.[6]

In ogni caso, peraltro, vi è il rischio che intervengano contestazioni, che chi è indotto a firmare un accordo urbanistico con l’amministrazione lo faccia con riserva: e dunque, in questa prospettiva, anche ciò che si presenta come accordo può essere giudicato il frutto dell’esercizio di una potestà impositiva impropria da parte dell’Amministrazione, con violazione dell’art. 23 Cost. e con nullità dell’accordo raggiunto: cfr. TAR Brescia 4026/2010, cit., che appunto giunge a concludere nel senso della nullità dell’accordo e del conseguente diritto del privato a ripetere quanto corrisposto in base ad esso.

Ma, sul piano della pianificazione generale, i maggiori problemi per la legittimità degli accordi sono soprattutto altri: quello della loro valenza (se ad es. sono accordi pre-PAT, devono evidentemente avere una valenza strategica); e quello della loro convenienza per l’Amministrazione pubblica. E, sotto quest’ultimo profilo, gli aspetti problematici riguardano – da un lato – la necessità della verifica dei dati economici dell’operazione (ciò che dovrebbe ragionevolmente comportare il ricorso a specifiche professionalità anche esterne all’ente locale); e – d’altro lato – la necessità di garantire l’uniformità nella ripartizione tra benefici pubblici e privati nelle varie operazioni gestite dall’ente (e, al riguardo, le pur discutibili “tabelle” di ripartizione tra privato e pubblico dell’utilità degli accordi paiono ispirate da un’esigenza reale).

6) Le esperienze perequative nel Veneto prima della perequazione: insegnamenti per il futuro

Nel Veneto l’esperienza concreta su questi temi è in realtà risalente a prima degli accordi di pianificazione; e la perequazione ha una storia più lunga dell’art. 35 della L.R. 11.

In particolare, l’esperienza dei programmi integrati di riqualificazione urbana, edilizia e ambientale (Piruea), ex L.R. 23/99, con la negoziazione urbanistica alla loro base, è stata un’esperienza vasta e importante, con luci ed ombre, e con Piruea talora utilizzati senza alcuna effettiva ragione urbanistica, addirittura su scala individuale.

Ma la perequazione risale a prima ancora, alla stagione degli atti unilaterali d’obbligo; atti – indotti o meno dalle amministrazioni comunali - con i quali i privati si impegnavano, per il caso in cui fosse approvata una variante al PRG avente determinati contenuti, a cedere aree, a eseguire opere, ad effettuare contribuzioni, e insomma a fare qualsiasi cosa.

Gli atti unilaterali hanno avuto un ruolo talora utile, talora immorale, diffondendosi largamente nel Veneto degli ultimi quindici anni.[7]

Ed è rilevante che il TAR Veneto abbia ora salvato quel metodo, espressamente riconoscendo che gli atti unilaterali sono validi (hanno una causa lecita) e sono efficaci; cfr. sentenza 4/6/2010 n. 2397, sez. seconda. I dubbi, invero, erano molteplici: sotto un profilo sostanziale, tali atti non erano circondati da quelle garanzie procedimentali e di trasparenza che ora contraddistinguono gli accordi di pianificazione di cui all’art. 6 della L.R. 11 (come si arrivava a un atto unilaterale? come veniva valutato?); e, sotto il profilo formale, era problematica la possibilità di riconoscere una loro generale efficacia (stante l’art. 1987 del codice civile, che non attribuisce effetti obbligatori alle promesse unilaterali se non nei casi ammessi dalla legge).

Ma– nel bene e nel male – si è trattato di un’esperienza preziosa per la riflessione attuale sulla perequazione nel Veneto (nel contenuto polisenso e improprio in cui il termine viene usato), e – soprattutto - sui limiti e le cautele che devono circondare le scelte perequative (o meglio, ripartitorie) in urbanistica.



[1] Del periodo attuale nella pianificazione veneta resterà l’icastico titolo di una nota di Dario Meneguzzo sul sito venetoius: “Tu chiamale, se vuoi, perequazioni …

[2] E ciò a tacere delle insormontabili difficoltà di cassa legate alle espropriazioni dopo la sentenza della Corte Costituzionale 348/2007.

[3] Il riferimento è naturalmente a Cons. Stato, sez. IV, 13/7/2010 n. 4545 (sulla perequazione operata in Comune di Roma) e a Cons. Stato, sez. IV, 22/1/2010 n. 216 (su Padova): due pronunce che, per la loro portata e la loro determinazione nel riformare le sentenze di primo grado, paiono segnare un orientamento giurisprudenziale favorevole alla ricerca di concrete soluzioni perequative da parte delle pianificazioni urbanistiche comunali. E l’orientamento giurisprudenziale, in una situazione di carenza legislativa, è importante assai.

[4] Con riferimento alla perequazione patavina, cfr. Fortunato Pagano - Cessioni, Palazzo Spada avalla lo scambio area-edificabilità. Ma rimane il nodo legislativo”, in Edilizia e Territorio n. 10/2010 - il quale la descrive in termini di individuazione di un “comparto anomalo”.

[5] Questa è, in specie, la posizione dell’INU, quale chiaramente espressa ad es. in una nota ufficiale di commento a TAR Lazio n. 1524/2010 sul P.R.G. di Roma (poi riformato dal Consiglio di Stato).

[6] Ed è invero il concetto di facoltatività la chiave di volta di tale pronuncia. Tutto ha tenuto al vaglio del Consiglio di Stato proprio per questo: il Comune di Roma non ha inciso sugli indici di fabbricabilità preesistenti, e le nuove previsioni si limitano a integrare l’assetto precedente, prevedendo una quota di edificabilità aggiuntiva ma condizionata (alla cessione di parte di essa o al pagamento di un contributo straordinario). In ciò sta la ragione della diversità rispetto alla precedente decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, 21.8.2006 n. 4833, relativa ad una disciplina (annullata) con cui il Comune di Bassano del Grappa aveva riservato a sè il 50% delle volumetrie concesse alle aree private.

[7] Cfr. Fernando Lucato, “Il caso di Altavilla Vicentina e una lettura dell’esperienza perequativa”, in Urbanistica –Dossier n. 76, “Esperienze venete di perequazione urbanistica”, giugno 2005, il quale descrive una prima fase di individuazione delle compensazioni nella prassi della redazione degli strumenti urbanistici generali (la fase della ricerca del consenso); seguita da una seconda fase – caratterizzata appunto dagli atti unilaterale d’obbligo - nella quale si partiva dai “desiderata” dei privati per delineare lo schema di piano (con il rischio però, per l’ente pubblico, di rinunciare al proprio compito fondamentale in materia di pianificazione urbanistica); e infine da una terza fase di consapevolezza della complessità delle trasformazioni territoriali (caratterizzata dall’affinamento delle tecniche perequative).

Ultimo aggiornamento ( domenica 07 novembre 2010 )
 
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