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Trattato di Lisbona: la disapplicazione delle norme interne contrastanti con i diritti fondamentali PDF Stampa E-mail
giovedì 10 febbraio 2011

di Federico Povelato

Tra le più rilevanti novità introdotte dal Trattato di Lisbona, approvato lo scorso 1° dicembre 2009, vi è la modifica dell’art. 6 del Trattato istitutivo della Comunità europea il quale, nella nuova formulazione, così recita:

– comma 2° - l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati.”

- comma 3° -I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.

La sentenza che qui di seguito si riporta (T.A.R. Roma Lazio, sez. II n. 18 maggio 2010 n. 11984) offre un interessante spunto sugli effetti conseguenti al riconoscimento dei diritti fondamentali sanciti dalla CEDU come principi interni al diritto dell’Unione.

Effetti di assoluta rilevanza per gli Stati Membri poiché le disposizioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sono, ora, immediatamente operanti negli ordinamenti nazionali “venendo in tal modo in rilevo l'ampia e decennale evoluzione giurisprudenziale che ha, infine, portato all'obbligo, per il giudice nazionale, di interpretare le norme nazionali in conformità al diritto comunitario, ovvero di procedere in via immediata e diretta alla loro disapplicazione in favore del diritto comunitario, previa eventuale pronuncia del giudice comunitario ma senza dover transitare per il filtro dell'accertamento della loro incostituzionalità sul piano interno”.

Laddove, quindi, una disposizione nazionale, statale e regionale, dovesse ritenersi preclusiva della tutela di un diritto fondamentale sancito dalla CEDU e non fosse possibile un’interpretazione adeguatrice, il Giudice nazionale dovrebbe, conseguentemente, disapplicarla al fine di garantire la piena tutela di quei diritti fondamentali statuiti dalla CEDU ed oggi trasfusi nel Diritto dell’Unione Europea.

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Seconda Bis)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

Sul ricorso numero di registro generale 1716 del 2009, proposto da: Corsi Roberto Corsi Antonio, Mazzucchi Maria Antonietta, rappresentati e difesi dagli avv. Alberto Maria Floridi e Stefano Gattamelata, con domicilio eletto presso Stefano Gattamelata in Roma, via di Monte Fiore,22;

contro

Comune di Segni, rappresentato e difeso dall'avv. Claudio Boazzelli, con domicilio eletto presso Claudio Boazzelli in Roma, via Montello, 30;

per la restituzione , previa sospensione dell'efficacia,

di AREE ILLEGITTIMAMENTE OCCUPATE PER LA REALIZZAZIONE DI UN ASSE VIARIO DI COLLEGAM. DELLA SS CASILINA CON LA SP DEI GAVIGNANESI - RISARCIMENTO DANNI - 23 BIS.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Segni;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 gennaio 2010 il dott. Raffaello Sestini e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1.

I ricorrenti chiedono a questo Tribunale l’accertamento del loro diritto alla restituzione, da parte del Comune intimato, dei propri terreni interessati dal realizzazione di un asse viario di collegamento della S.S: Casilina con la S.P. dei Gavignanesi giuste delibere di G.C. nn. 158 e 159 del 27 novembre 2001, per i quali non è intervenuto il decreto definitivo d’esproprio entro il termine di validità della dichiarazione di pubblica utilità dell’opera, ovvero, qualora risultasse l’impossibilità della restituzione delle aree illegititmamente occupate, il risarcimento del danno da occupazione illegittima ai sensi dell’art. 43 del DPR n. 327/2001, previa declaratoria di nullità o annullamento, per quanto occorrere possa, della nota sindacale di diniego del 16 dicembre 2008 e del provvedimento di ripresa dei lavori in esame, ed in ogni caso il risarcimento dei maggiori danni arrecati nelle more alla propria azienda, anche in termini di decremento di valore.

2.

I ricorrenti, in particolare, sono proprietari di oltre 60 ettari di terreni nel Comune di Segni, sui quali esercitano un’azienda vinicola, interessati fin dal 2001 dai lavori di realizzazione di infrastrutture pubbliche stradali.

Negata dal TAR la domanda incidentale di sospensione e respinto il ricorso con sentenza n. 1060/2006 (l’appello, riferiscono i ricorrenti, pende davanti al Consiglio di Stato), il 12 novembre 2002 il Comune di Segni occupava d’urgenza le aree ai fini dell’esecuzione dei lavori e del definitivo esproprio per 14.104 mq. (ma l’occupazione veniva stimata dai ricorrenti in misura maggiore, pari a 19.412 mq.).

Peraltro, riferiscono i ricorrenti, i lavori, che causavano loro numerosi ulteriori danni, in particolare per la demolizione di un ponte sul fiume Sacco e par l’interdizione di un accesso alla proprietà da Via Casilina, non portavano al completamento dell’opera, oggi in condizioni di grave degrado, ed il Comune non procedeva al pagamento delle dovute indennità né emetteva il decreto definitivo d’esproprio nei termini, rendendo illecita l’occupazione.

Con atto di intimazione e diffida i ricorrenti chiedevano quindi al Comune, in data 19 novembre 2008, la restituzione dell’area o in subordine il pagamento del corrispettivo per la sua cessione, oltre a tutti gli ulteriori danni, ma il Comune di Segni opponeva una nota di dinego in data 16 dicembre 2008, impugnata in via cautelativa con il ricorso in epigrafe.

3.

In diritto, i ricorrenti deducono i vizi di violazione e falsa applicazione degli artt. 12, 13, 23 e 43 del DPR n. 327/2001e del T.U. espropri e dei principi di tutela della proprietà privata sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo., della legge n. 241/1990 in tema di partecipazione, nonché i vizi di eccesso di potere per difetto di motivazione, difetto d’istruttoria, illogicità, superficialità e contraddittorietà dell’azione amministrativa.

Infatti, argomentano i ricorrenti, ai sensi dell'art. 23, comma 1, lett. a) del T.U. sugli espropri, "il decreto d’esproprio non fu mai emanato entro il termine di scadenza dell’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità, decorso il 27 novembre 2005. Anche in caso di proroga, peraltro non avvenuta, il termine sarebbe ugualmente scaduto, il 27 novembre 2007. Ciò giustifica, concludono i ricorrenti, l’azione davanti alla giurisdizione esclusiva di questo giudice ai sensi degli artt. 53 e 43 del T.U.E.L.e dell’ art. 8 l. n. 205/2000, come confermato dall’A.P. del Consiglio di Stato n. 4/2007 (confermata dalle decisioni del TAR Lazio, Sezioni I n. 258/2009, I bis n. 220/2009 e II bis n. 3490/2008).

4.

Quanto al petitum, i ricorrenti procedono, anche mediante perizia tecnica, alla quantificazione del danno, parametrato all’estensione effettiva del terreno occupato pari a 19.412 mq ed ai criteri del citato art. 43, comma 6, T.U.E. (valore del bene al momento dell’acquisizione ed interessi moratori dal momento dell’occupazione senza titolo) per una somma pari ad Euro 307.348,63.

L’ulteriore danno all’attività economica esercitata dalla propria azienda viene stimato, secondo gli stessi parametri a suo tempo messi a punto da un tecnico incaricato dal Comune (Euro 28.000,00 per il maggior tempo di movimentazione delle macchine agricole per i previsti 200 giorni di durata dei lavori, secondo la perizia del 15 novembre 2003) in Euro 235.000,00 (pari a circa 3360 ore di lavoro perduto delle macchine agricole), elevati ad Euro 470.000,00 a seguito di un più esatto calcolo delle distanze effettivament epercorse dale macchine agricole.

I ricorrenti computano poi in Euro 362.000,00, secondo apposita stima tecnica, la perdita di valore dell’azienda, chiedendo la nomina di C.T.U.

5.

Il Comune di Segni si costituiva in giudizio, per contrastare le pretese dei ricorrenti con proprie ampie ed argomentate memorie, alle quali i ricorrenti replicavano con nuove ampie memorie. Entrambe le parti producevano inoltre un’estesa ricostruzione della giurisprudenza conforme alla rispettive argomentazioni.

Con l’originario ricorso venivano inoltre chieste idonee misure cautelari, che questo TAR peraltro negava con ordinanza n. 1449/2009, attesa la necessità di approfondire le complesse questioni in sede di merito, e considerata la prevalenza dell’interesse generale alla realizzazione dell’opera pubblica, oltreché la non irreparabilità del danno patrimoniale allegato dai ricorrenti, anche alla luce delle loro prospettazioni circa la vastità della propria area e la risalenza della lesione.

Un ulteriore e diverso contenzioso veniva , infine, attivato dai ricorrenti in relazione alla proprietà del ponte sul fiume Sacco.

6.

In diritto, il Comune afferma l’inapplicabilità dell'art. 43 D.P.R. 327/2001 alla fattispecie in esame, invocando la fondatezza della tesi “univocamente sostenuta” dalla Corte di Cassazione (ex multis sent. n.18239/2005), anche a Sezioni Unite (sent. n.26732/2007), sulla inapplicabilità dell' art.43 D.P.R. 327/2001 alle fattispecie espropriative caratterizzate della presenza di una dichiarazione di pubblica utilità intervenuta prima dell'entrata in vigore dello stesso D.P.R. 327/2001 (avvenuta in data 30.06.2003), che avrebbe riscontrato l'adesione anche del Consiglio di Stato con la sentenza 12.06.2009 n.3677, Sez. V, di accoglimento dell'eccezione proposta dall'Ente espropriante relativamente alla inapplicabilità dell 'art. 43 D.P.R. 327/2001 con riguardo ad una fattispecie oblatoria in cui la dichiarazione di pubblica utilità era intervenuta anteriormente all'entrata in vigore del succitato D.P .R.

Il Comune intimato conclude per l'inapplicabilità del D.P .R. 327/2001, e quindi anche del suo articolo 43, anteriormente all' entrata in vigore, verificatasi in data 30.06.2003, con la conseguente infondatezza della richiesta di restituzione dei terreni secondo le previsioni di cui all'art.43 D.P.R. 327/2001. Il caso in esame, infatti, rientrerebbe pienamente nel regime di operatività di

quella che, per decenni, ha rappresentato la normativa di riferimento in materia di espropriazione per causa di pubblica utilità, ovvero la legge n.2359 del 25.06.1865. Inserita in tale contesto normativo, secondo il Comune la vicenda connessa alla espropriazione disposta nei confronti dei ricorrenti integra pienamente una fattispecie di cosiddetta occupazione appropriativa o accessione invertita, che esclude la rivendicabilità delle aree da parte dei ricorrenti avendo già determinato un acquisto a titolo originario in favore dell' ente locale.

Nella fattispecie in esame, continua il Comune, l'apprensione dei terreni è avvenuta nell' ambito di una formale procedura ablatoria, contrassegnata da una contestuale dichiarazione di pubblica utilità dell' opera (deliberazione n.158 del 27.11.2001), ritenuta pienamente legittima proprio dalla sentenza di questo TAR del Lazio n.1060 del 10.11.2005, ed è altresì intervenuta l’irreversibile destinazione dei fondi occupati, come indirettamente confermato dalle considerazioni formulate

dagli stessi ricorrenti che si limitano a lamentare la mancata conclusione dei lavori, già eseguiti se hanno loro prodotto i danni lamentati.

7.

Quanto alla domanda dei ricorrenti di risarcimento del danno, essendosi in presenza di una accessione invertita per effetto dell'irreversibile trasformazione del fondo illegittimamente occupato con la realizzazione di opera pubblica, secondo il Comune deve trovare applicazionel'art. 57 D.P.R. 327/2001, e pertanto, vertendosi in ipotesi di espropriazione di terreni a vocazione non edificatoria, il risarcimento andrà commisurato alla indennità di espropriazione determinata sulla base del sistema tabellare di cui alla Legge 22.10.1971 n.865, articolo 16 che, a seguito della sentenza n.5 del 1980 della Corte Costituzionale, è inefficace rispetto ai terreni edificabili, ma applicabile per la stima di quelli agricoli. A conferma, lo stesso Comune cita la giurisprudenza della Corte di Cassazione, ed in particolare Cass. Civ. S.U. 28.10.2009 n. 22753, secondo cui "In tema di determinazione della indennità di espropriazione per pubblica utilità, la dichiarazione di illegittimità costituzionale di cui alla Legge n.865 del 1971, art. 16, come modificato dalla Legge n.10 del 1977, art.14 (sentenza della Corte Costituzionale n.5 del 1980), nella parte in cui imponeva il criterio del valore agricolo medio dei terreni a prescindere dalla loro destinazione economica, non comporta che in caso di espropriazione di terreni ad effettiva destinazione agricola la relativa indennità debba quantificarsi automaticamente in misura pari al prezzo di mercato del fondo ed al suo valore venale, dovendo essa invece essere commisurata, ai sensi del combinato disposto della citata legge n.865 del 1971, artt. 15 e 16 (cui si riferisce, ancora, la legge 359 del 1992, art.5, comma 4), al valore agricolo del fondo medesimo, quale si determina sia in base alla media dei valori, nell'anno solare precedente il provvedimento ablativo, dei terreni ubicati nell'ambito della medesima regione agraria”.

Lo stesso Comune osserva che la Corte Costituzionale con sentenza n.26ldel 1997 ha dichiarato infondata la questione di costituzionalità dell'art. 5 bis, comma 4, laddove per il calcolo dell'indennizzo delle aree non legalmente edificabili rinvia al criterio tabellare di cui alla legge n.865 del 1971, art.16, ritenendo non irrazionale e neppure arbitraria -e quindi non in contrasto con gli artt. 3 e 4 Cost. –la scelta del legislatore di suddividere le aree in due sole categorie, costituite la

prima da quelle edificabili, e l'altra da tutte le rimanenti.

8.

Il Comune intimato argomenta infine l’infondatezza della richiesta di maggior danno, affermando che le pretese dei ricorrenti , illustrate ai punti precedenti, aventi ad oggetto voci di danni ulteriori rispetto a quelli reclamati a titolo di occupazione appropriativa, sono infondate tanto in fatto quanto in diritto.

In particolare, in merito all'effettivo patimento di danni ulteriori, non si fornirebbe alcun elemento di prova, limitandosi a alle risultanze di uno studio commissionato dal Comune per valutare l’eventuale impatto derivante dalla chiusura del traffico del ponte sul fiume Sacco, prima che insorgesse la questione sulla effettiva titolarità privata o pubblica del suddetto ponte, ancora sub –judice.

9.

Il Comune osserva altresì che una parte dei danni ulteriori lamentati viene ricondotta al decremento dal valore intrinseco dell' azienda susseguente alla instaurazione della procedura ablatoria, ma che l'eventuale deprezzamento che abbiano subito le parti residue del bene espropriato, deve essere considerato come voce ricompresa nella indennità di espropriazione, e, dunque, in alternativa, nel risarcimento del danno da occupazione appropriativa che, per definizione, riguarda l'intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto passivo del provvedimento ablatorio, ivi compresa la perdita di valore della porzione residua derivata dalla parziale ablazione del fondo, sia essa agricola o edificabile, non essendo concepibili, in presenza di un'unica vicenda espropriativa, due distinte somme, imputate l'una a titolo di indennità di espropriazione e l'altra a titolo di risarcimento del danno per il deprezzamento subito dai residui terreni (Cass. Civ. Sez. I, sent. n.l 0634 del 4.06.2004). Inoltre, spetta al soggetto espropriato di provare sia che la parte residua del fondo era intimamente collegata con quella espropriata da un vincolo strumentale ed obiettivo, sia che il distacco di parte di esso influisce oggettivamente in modo negativo sulla parte residua (Cass. Civ. sez. I civile, sent. 9.05.1990, n.3790).

In conclusione, il Comune contesta che sia applicabile l'art.43 D.P.R. 327/2001 e che possano essere riconosciuti i danni allegati, e conviene solo sulla corresponsione di un indennizzo parametrato al valore agricolo medio dell’area ai sensi della legge n.865 del 1971, artt. 15 e 16.

10.

Il Collegio osserva che il nodo centrale ai fini della decisione delle complesse questioni dedotte in giudizio e così ben argomentate dalle due difese di parte, non essendo sostanzialmente controversi i fatti, concerne l’applicabilità o meno dell'art.43 D.P.R. 327/2001 alla fattispecie in esame.

La questione, peraltro, è stata già sciolta, per quanto concerne questo Giudice, dalla sentenza di questa stessa Sezione Il bis del TAR Lazio, n. 9775 del 2 ottobre 2009 che, all'esito ricostruzione del quadro normativo di riferimento, ha chiarito, come già indicato dal Consiglio di Stato nelle decisioni dell'Adunanza Plenaria n. 2 del 2005 e della IV Sezione nn. 3725 e 2582 del 2007, che l’art. 43 si applica anche alle occupazioni sine titulo sussistenti alla data di entrata in vigore del testo unico.

Secondo tale ricostruzione, in particolare, l'art. 43 è stato introdotto nel sistema anche al precipuo scopo di dare alle Amministrazioni una "legale via d'uscita" prima non riconosciuta dalla giurisprudenza, e non rientra nell’ambito di applicazione dell'art. 57 dello stresso testo unico, che invece riguarda il regime transitorio dei «procedimenti in corso», cioè di quelli per i quali non risulta scaduto il termine entro il quale poteva essere emesso il decreto di esproprio, ovvero non è stato annullato un atto del procedimento ablatorio. Dunque, non è corretto sostenere l'inapplicabilità alla fattispecie del nuovo sistema dell'acquisizione c.d. sanante di cui al citato T.U.E., mentre l’istituto dell'occupazione acquisitiva deve ormai considerarsi non più applicabile nel nostro ordinamento a seguito della recente evoluzione del sistema e delle sottese ragioni di certezza del diritto e tutela dei diritti dei cittadini. Occorre quindi far riferimento, anche per le fattispecie anteriori all'entrata in vigore del testo unico sugli espropri e all'affermarsi dei nuovi orientamenti giurisprudenziali, all'istituto dell'acquisizione sanante di cui all'art. 43 del medesimo testo unico.

11.

Lo stesso Consiglio di Stato, con sentenza n. 2852/2007 della VI Sezione, ha escluso, alla luce dei superiori principi costituzionali e comunitari, che in assenza di un atto di natura ablatoria, l’Amministrazione possa acquistare a titolo originario la proprietà dell'area altrui, pur quando su di essa abbia realizzato in tutto o in parte un'opera pubblica in attuazione della dichiarazione della pubblica utilità. Infatti l'opposta soluzione, osserva la sentenza, in primo luogo non sarebbe conforme alla Convenzione Europea sui diritti dell'uomo, che ha una diretta rilevanza nell'ordinamento interno poiché per l'art. 117, primo comma, della Costituzione, le leggi devono rispettare i "vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario", mentre per l'art, 6 (F) del Trattato di Maastricht (modificato dal Trattato di Amsterdam), “l'Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, in quanto principi generali del diritto comunitario”, e la giurisprudenza della CEDU ha ravvisato in diretto contrasto fra la Convenzione e la prassi interna sulla “espropriazione indiretta (CEDU; Sez, l - 17 maggio 2005; Sez. l - 15 novembre 2005, ric. 56578/00; Sez, l - 20 aprile 2006).

La stessa sentenza opera un excursus del contesto in cui è maturato il nuovo regime dell'acquisto della proprietà privata dal parte dell' Amministrazione, ricordando che l’art. 43 è stato emesso dal legislatore delegato (che ha recepito le sollecitazioni dell'Adunanza Generale dello stesso Consiglio di Stato) per consentire all'Amministrazione di adeguare la situazione di fatto a quella di diritto quando il bene sia stato "modificato per scopi di interesse pubblico" (fermo restando il diritto del proprietario di ottenere il risarcimento del danno), così evitando ulteriori sentenze di condanna da parte della CEDU. In effetti, l’art. 43 è stato individuato 'with interest' dal Comitato dei Ministri del Consiglio (riunione del Comitato dei Ministri del 14 febbraio 2007) che, in relazione all’applicazione dello stesso art. 43 anche ai casi preesistenti, ha ritenuto possibile “an end definitively to the pratice of indirect expropriation”.

12.

Sul punto, il Collegio ritiene altresì necessario integrare le citate acquisizioni giurisprudenziali e svolgere alcune ulteriori considerazioni, accogliendo talune suggestioni delle memorie di parte ricorrente, circa il rinnovato vigore dei sopra indicati principi affermati dalla CEDU, ai quali il legislatore del T.U.E. ha dichiaratamente aderito e che oggi non possono non guidare l’interprete nell’applicazione dello stesso testo normativo.

Il Collegio si riferisce, in particolare, alla sentenza n. 349/2007 della Corte Costituzionale che, premesso di aver ritenuto che in passato le disposizioni della CEDU, in mancanza di una specifica previsione costituzionale, acquistassero nell'ordinamento interno il rango della legge ordinaria che aveva reso esecutiva la Convenzione, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione e della riformulazione dell’art. 117, primo comma, ha ritenuto che l'ingresso delle norme CEDU nel diritto interno avvenga sulla scorta dell'art. 117 Cost., con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU, e dunque con gli "obblighi internazionali" di cui all'art. 117, primo comma, Cost., viola per ciò stesso il nuovo parametro costituzionale.

Secondo la Corte Costituzionale, con l'art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, che dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati. Ne consegue l'obbligo del giudice di procedere ad una interpretazione "convenzionalmente" orientata o, comunque, ad una interpretazione "bilanciata" tra conformità a Costituzione e conformità a Convenzione. Pertanto, al giudice nazionale spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale interposta, egli dovrà investire la Corte Costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell'art. 117, primo comma.

13.

Ebbene, a giudizio del Collegio la questione giuridica in esame appare destinata a nuovi e ancor più incisivi sviluppi a seguito dell’entrata in vigore, lo scorso 1° dicembre 2009, del Trattato di Lisbona firmato nella capitale portoghese il 13 dicembre 2007 dai rappresentanti dei 27 Stati membri, che modifica il Trattato sull'Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea.

Infatti, fra le più rilevanti novità correlate all'entrata in vigore del Trattato, vi è l'adesione dell'Unione alla CEDU, con la modifica dell'art. 6 del Trattato che nella vecchia formulazione conteneva un riferimento "mediato" alla Carta dei diritti fondamentali, affermando che l'Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi del diritto comunitario.

Nella nuova formulazione dell'art. 6, viceversa, secondo il comma 2 "l'Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali" e, secondo il comma 3, "i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell"uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali".

Il riconoscimento dei diritti fondamentali sanciti dalla CEDU come principi interni al diritto dell'Unione, osserva il Collegio, ha immediate conseguenze di assoluto rilievo, in quanto le norme della Convenzione divengono immediatamente operanti negli ordinamenti nazionali degli Stati membri dell’Unione, e quindi nel nostro ordinamento nazionale, in forza del diritto comunitario, e quindi in Italia ai sensi dell’art. 11 della Costituzione, venendo in tal modo in rilevo l’ampia e decennale evoluzione giurisprudenziale che ha, infine, portato all’obbligo, per il giudice nazionale, di interpretare le norme nazionali in conformità al diritto comunitario, ovvero di procedere in via immediata e diretta alla loro disapplicazione in favore del diritto comunitario, previa eventuale pronuncia del giudice comunitario ma senza dover transitare per il filtro dell’accertamento della loro incostituzionalità sul piano interno.

14.

Secondo la citata sentenza n. 349/2007 della Corte Costituzionale, l’esatta ed uniforme applicazione delle norme in esame è garantita dall’interpretazione centralizzata della CEDU attribuita alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, cui spetta la parola ultima e la cui competenza si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli.

Si aprono quindi inedite prospettive per la interpretazione conformativa, ovvero per la possibile disapplicazione, da parte di questo giudice nazionale, delle norme nazionali, statali o regionali, che evidenzino un contrasto con i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, a maggior ragione quando, come in questo caso, la Corte di Strasburgo sia sia già pronunciata sulla questione. E se le predette considerazioni sono esatte, ciò potrà avvenire in via generale per tutti i diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione, e non più, come è finora avvenuto, solo nei casi in cui un diritto fondamentale della Convenzione abbia acquisito una specifica rilevanza nel diritto dell’Unione mediante il recepimento in una norma comunitaria, ovvero mediate il suo impiego, quale principio generale, in una decisione della Corte di Lussemburgo.

Le predette considerazioni consentono al Collegio di confermare ed anzi rafforzare la precedente giurisprudenza di questo Tribunale circa l’applicabilità dell’art. 43 TUE anche alle fattispecie, come quella in esame, anteriori alla sua entrata in vigore, in quanto norma ricognitiva di un principio sancito dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Infatti, laddove il successivo art. 57 TUE, che come si è detto esclude l’applicabilità dell’art. 43 ai procedimenti in corso, dovesse essere ritenuto preclusivo per la tutela di un diritto fondamentale sancito dalla Convenzione, la cui violazione è già stata ripetutamente dichiarata dalla Corte di Strasburgo, e se non fosse neppure possibile una interpretazione adeguatrice volta a renderlo conforme alla Convenzione, questo Giudice dovrebbe necessariamente procedere incidentalmente alla disapplicazione dello stesso articolo 57 in relazione alla fattispecie in esame, al fine di garantire la piena tutela, nell’ordinamento nazionale, di uno dei diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione europea per lo salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ed oggi trasfusi nel Diritto dell’Unione europea.

15.

Tutte le pregresse considerazioni portano a ritenere impossibile l’acquisto a titolo originario dell’area in esame sul modello della c.d. accessione invertita, emergendo non un iter provvedimentale di tutela dell’interesse generale che possa dar luogo ad un indennizzo, bensì un comportamento antigiuridico della pubblica amministrazione, vietato dalla Convenzione oltreché dal diritto nazionale, vale a dire un fatto illecito, che determina l’obbligo di risarcimento del danno ingiusto causato.

Viene allora in rilievo la necessità, comune alle previsioni della Convenzione e del codice civile italiano, di rimediare alla violazione antigiuridica del diritto in primo luogo mediante il risarcimento in forma specifica chiesto dal titolare del diritto violato, e solo ove impossibile, mediante il risarcimento patrimoniale per equivalente.

Pertanto, prima di accedere alla domanda di risarcimento patrimoniale proposta dalla ricorrente ai sensi dell’art. 43 più volte citato, e di valutare di conseguenza i criteri e gli importi del risarcimento dovuto a seguito della c.d. acquisizione sanante, tuttora controversi fra le parti, occorre prima considerare che il ricorso e le successive memorie di parte ricorrente optano in primo luogo per il risarcimento in forma specifica mediante la restituzione delle aree sottratte all’attività dell’azienda vinicola, e che l’occupazione e l’impossibilità di restituzione delle stesse aree sono state motivate dall’amministrazione in relazione alla realizzazione di una specifica opera viaria, cioè di un intervento “isolato” di per sé insufficiente ad escludere la restituzione dell’area secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in quanto l’apertura al pubblico e l’utilizzazione dell’opera in condizioni di sicurezza al termine dei lavori non è, in assoluto, incompatibile con una almeno parziale restituzione delle aree di proprietà dei ricorrenti, alla stregua dei noti principi, di derivazione comunitaria, di ragionevolezza, adeguatezza, proporzionalità e sussidiarietà.

16.

Occorre quindi disporre preliminarmente una verificazione della pubblica amministrazione comunale, in contraddittorio con i ricorrenti, volta a stabilire se l’irreversibile trasformazione giustificata da superiori esigenze d’interesse pubblico riguardi tutte le aree occupate ovvero solo una parte di esse, e se le aree escluse possano, per le loro caratteristiche, essere utilmente restituite ai ricorrenti al termine dei lavori, previa eventuale apposizione di servitù di diritto pubblico.

All’esito di tale verifica l’amministrazione comunale dovrà determinare e proporre ai ricorrenti sia il risarcimento di cui al citato art. 43, per le aree motivatamente ritenute non restituibili, sia il ristoro dovuto per la temporanea non disponibilità delle altre aree protratta fino al termine della loro illecita occupazione ed alla loro conseguente restituzione.

Solo nel caso in cui le parti in causa concordino su tutti i predetti punti e sui conseguenti importi, necessariamente comprensivi dell'intera diminuzione patrimoniale subita dal soggetto passivo del provvedimento ablatorio (decisioni Scordino contro Italia del 13 febbraio 2007 – richiesta n. 43662/98 – e GuisoGallisay controItalia – richiesta n. 58858/00), il ricorso potrà infine essere dichiarato improcedibile.

In caso contrario, il Collegio dovrà viceversa pronunciarsi sui rimanenti punti ancora controversi, e dovrà in particolare accertare la sussistenza di idonei elementi di prova in relazione alle ulteriori specifiche domande di risarcimento della asserita perdita di valore dell’azienda e del lamentato ulteriore danno all’attività economica esercitata, con l’esclusione, osserva fin d’ora il Collegio, delle disutilità riguardanti, non la violazione di uno specifico e differenziato diritto di proprietà e di utilizzazione economica dei beni dei ricorrenti, bensì la loro possibilità di accesso e di utilizzazione della pubblica infrastruttura viaria aperta alla generalità della cittadinanza, subendo i ricorrenti, nelle circostanze in esame ed al pari di ogni altro cittadino, i temporanei disagi e le eventuali disutilità, ma lucrando anche la possibilità di più razionale e rapida fruizione in condizioni di maggiore sicurezza, derivanti dalla realizzazione della nuova infrastruttura viaria.

A giudizio del Collegio sussistono infine motivate ragioni, in relazione alla complessità e almeno parziale novità delle questioni dedotte, per compensare fra le parti le spese della presente fase di giudizio.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Seconda bis, parzialmente decidendo sul ricorso in epigrafe, lo dichiara ammissibile ed accerta, nell’ambito della propria giurisdizione esclusiva, la fondatezza della pretesa risarcitoria dei ricorrenti per la illegittima occupazione, da parte dell’intimato Comune, dei terreni interessati dalla realizzazione di un asse viario di collegamento della S.S: Casilina con la S.P. dei Gavignanesi giuste delibere di G.C. nn. 158 e 159 del 27 novembre 2001.

Per l’effetto, annulla la nota sindacale del 16 dicembre 2008 ed ordina al Comune di Segni, in persona del Sindaco pro tempore, di procedere, in contraddittorio con i tecnici nominati dai ricorrenti, ad una verificazione amministrativa dello stato dei luoghi e delle opere, volta a stabilire se l’irreversibile trasformazione giustificata da superiori esigenze d’interesse pubblico riguardi tutte le aree occupate ovvero solo una parte di esse, e se le aree escluse possano essere utilmente restituite ai ricorrenti previa eventuale apposizione di servitù di diritto pubblico.

All’esito di tale verifica, l’amministrazione comunale dovrà determinare e proporre ai ricorrenti gli importi dovuti per il risarcimento ai sensi dell’art. 43 del DPR n. 327/2001 per le aree motivatamente ritenute non restituibili, nonché per il ristoro della temporanea non disponibilità delle altre aree.

Lo stesso Comune dovrà depositare presso la segreteria di questo Tribunale una relazione, attestante l’avvenuto svolgimento dei predetti adempimenti, entro il termine di quattro mesi dalla comunicazione in via amministrativa o dalla notifica a cura di parte, se anteriore, della presente sentenza.

Dichiara improcedibili, allo stato, le ulteriori domande di risarcimento dei ricorrenti per i maggiori danni arrecati alla propria azienda ed alla propria attività economica.

Fissa l’ulteriore trattazione alla pubblica udienza del 18 novembre 2010.

Compensa fra le parti le spese della presente fase di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 gennaio 2010 e 25 marzo 2010 con l'intervento dei Signori:

Eduardo Pugliese, Presidente

Raffaello Sestini, Consigliere, Estensore

Francesco Arzillo, Consigliere

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 18/05/2010

Ultimo aggiornamento ( giovedì 10 febbraio 2011 )
 
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