Associazione Avvocati Amministrativisti Veneto Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativisti
Cerca >> 
 Ultimo aggiornamento del sito: mercoledì 17 maggio 2017
Home arrow Giustizia Amministrativa arrow Contributi arrow La condanna alle spese di cui all’Art. 26, comma II^, del nuovo Codice del processo amministrativo
Home
Associazione
Elenco associati
Seminari
Contattaci
Documenti
Links
Conferenze ed eventi
modulo iscrizione
Amministratore
La condanna alle spese di cui all’Art. 26, comma II^, del nuovo Codice del processo amministrativo PDF Stampa E-mail
venerdì 03 giugno 2011

di GIOVANNI ATTILIO DE MARTIN 

Estremamente interessante è la decisione del Consiglio di Stato, Sezione V^ giurisdizionale, 23 maggio 2011 n. 3083 (Presidente Baccarini, Estensore Poli) in quanto rappresenta una delle primissime applicazioni dell’Articolo 26, comma II^, del Codice del processo amministrativo.

La precitata norma giuridica statuisce espressamente quanto segue: “il Giudice, nel pronunciare sulle spese, può altresì condannare, anche d’ufficio, la parte soccombente al pagamento in favore dell’altra parte di una somma di denaro equitativamente determinata, quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati”.

Essa riprende del tutto pedissequamente quanto espresso dal Legislatore nella Relazione illustrativa al progetto di Codice (pagina 21). Rispetto a quanto previsto dall’Articolo 96, comma III^, C.p.c. la prescrizione contenuta nel Codice del processo amministrativo è norma speciale in quanto tipizza espressamente i presupposti applicativi in presenza dei quali il G.A. può procedere alla condanna officiosa della parte soccombente al pagamento di una somma di denaro equitativamente determinata.

Come ben posto in evidenza dal Consiglio di Stato nella recentissima sentenza sopra citata, trattasi di una previsione processuale applicabile “solo in presenza di due ben individuate circostanze” (i.e., “ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati”; n.d.r.); e altresì “generica nei criteri di liquidazione che potrebbero ritenersi disancorati da ogni parametro di riferimento; equivoca in ordine alla natura dello strumento; derogatoria rispetto al principio della domanda”.

La ratio della norma in disamina è di immediata lettura ed interpretazione (ossia approntare una soddisfazione pecuniaria in favore della parte risultata vincitrice in un processo di parti); essa, indirettamente e come corollario di tutta la più recente legislazione in materia di diritto civile e non solo (si pensi ad istituti quali la mediazione obbligatoria), mira ad evitare che i Giudici si occupino di processi ritenuti superflui, ovverosia reputati (oggettivamente) scontati nel loro esito (ed ecco allora il riferimento secondo cui la “decisione è fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati”) e, quindi, di ostacolo alla realizzazione del “giusto processo” e della sua “ragionevole durata” (valore costituzionale e precipitato del diritto internazionale pattizio).

Sistematicamente la previsione del pagamento della somma di denaro de qua: 1) non concerne le spese di lite le quali vengono quantificate secondo la logica di cui agli Articoli 91 e 92 C.p.c.; 2) non fa insorgere una responsabilità da lite temeraria (tipizzata dall’Articolo 96, commi I^ e II^, del C.p.c.); 3) non concerne la pretesa sostanziale dedotta in Giudizio (in merito alla quale statuisce il contenuto dispositivo della sentenza); 4) non costituisce una sanzione pubblica posto che il relativo gettito non è devoluto all’Erario dello Stato e la norma in disamina omette di indicare i limiti od i criteri oggettivi di liquidazione (ciò a differenza di talune prescrizioni contenute nel Codice dei contratti pubblici le quali individuano vere e proprie sanzioni).

Il Consiglio di Stato si è posto, quindi, giustamente il problema di inquadrare, in via sistematica, la natura giuridica della condanna, ex Articolo 26, comma II^, Codice processo amministrativo, non tanto per ragioni astratte quanto piuttosto per le motivazioni pratiche connesse a siffatta qualificazione (applicabilità, o meno, del T.U. in materia di spese di giustizia; problema di cumulabilità di tale somma con eventuali sanzioni, pubbliche o private, irrogabili dal Giudice Amministrativo in occasione del processo, ovvero con il risarcimento del danno per lite temeraria e così via).

E’ stato dapprima escluso il carattere di pena privata, inflitta officiosamente dal Giudice per reprimere l’abuso dello strumento del processo: ciò in quanto il carattere officioso della inflizione della pena privata non appare conforme alle caratteristiche generali dell’istituto il quale postula normalmente la richiesta della parte interessata al Giudice (come stabilito, ad esempio e rimanendo nell’ambito del diritto processuale amministrativo, dall’Articolo 114, comma II^, C.p.a. che prevede, sulla falsariga di quanto stabilito dall’Articolo 614 bis C.p.c., un meccanismo processuale consistente in una sanzione pecuniaria per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato). Né la collocazione sistematica, la genesi storica ed il tenore testuale fanno dell’Articolo 26, comma II^, C.p.a. una norma introduttiva di una sanzione privata. Sul punto molto diversa era la norma prevista dall’Articolo 385 C.p.c. (introdotto dalla L. n. 40/2006 e successivamente abrogato dalla L. n. 69/2009), che era stata intesa dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità quale foriera di una “pena privata” tesa a sanzionare la condotta maliziosa della parte che, in violazione del dovere di solidarietà sociale sancito dall’Articolo 2 della Costituzione, avesse illecitamente abusato dello strumento processuale del ricorso per cassazione.

Nemmeno la norma introduce nel sistema una forma speciale di responsabilità aggravata derogatoria rispetto ai precetti di cui all’Articolo 96, commi I^ e II^, C.p.c., in quanto, come giustamente rilevato dal Supremo Giudice Amministrativo, il precetto prescinde da qualsivoglia riferimento a fattispecie di danno e sfugge al principio della domanda di parte che è, viceversa, tipico e consustanziale ai principi della responsabilità civile.

Non rimane, quindi, che ritenere che l’Articolo 26, comma II^, C.p.a. abbia introdotto nel sistema della giustizia amministrativa un indennizzo per il “danno lecito da processo” vale a dire il pregiudizio che la parte vittoriosa ha subito per l’esistenza e la durata del Giudizio, anche se la controparte non ha agito o resistito in mala fede o senza prudenza.

Ancora una volta è la ratio della norma a disvelarne il vero contenuto ed il suo armonico inserirsi nel sistema i cui valori fondamentali sono, per l’attuale Legislatore, essenzialmente la ragionevole durata ed il giusto processo.

Il Consiglio di Stato fa, peraltro ed in questa direzione, un interessante parallelo fra l’Articolo 26, comma II^, C.p.a. e la Legge Pinto n. 89/2001, posto che la norma processuale di nuovo conio chiama la parte che abbia dato avvio od abbia resistito ad un Giudizio oggettivamente ritenuto ingiustificabile ad indennizzare la controparte che è stata chiamata a subirlo. Evidenziata la natura dell’ “indennizzo” si sottolinea come la sua quantificazione sia affidata (diremmo lasciata) all’equità del Giudice, ossia al criterio di valutazione giudiziaria correttivo od integrativo, preordinato al contemperamento dei diversi e configgenti interessi, nella logica del caso concreto, secondo ciò che postula la coscienza sociale.

Nel completo silenzio del Legislatore la sentenza in disamina ha individuato taluni dei parametri ai quali agganciare la determinazione equitativa de qua: “danni punitivi” di matrice anglosassone con indiretta funzione di deterrenza sanzionatoria alla proliferazione dei processi, sganciati dalla dimostrazione, anche presuntiva, di un pregiudizio da compensare (quali ad esempio gli eventuali utili conseguiti a cagione della ingiusta attivazione o resistenza nel processo o della sua durata); valore della controversia; riferimento ad una percentuale delle spese di lite sostenute dalla parte vittoriosa (come avviene in tema di applicazione dell’Articolo 96, comma III^, C.p.c.).

Trattasi, in via di sintetica conclusione, di strumento processuale assai delicato che deve essere utilizzato con estrema saggezza, ragionevolezza ed anche “parsimonia” da parte del G.A. costituendo esso “sanzione” per i Giudizi Amministrativi davvero inutili.                   

Si sottolinea che il presente modesto contributo, oltreché riportare fedelmente i principi fondamentali contenuti nella decisione in argomento, riflette, come sempre, le opinioni, meditate ma del tutto personali, di colui che lo ha redatto.

Padova, lì 27.05.2011                                       Giovanni Attilio De Martin

 
< Prec.   Pros. >
Contenuti Multimediali
Associazione Avvocati Amministrativisti del Veneto tutti i diritti riservati