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COSA STA DIVENTANDO L'URBANISTICA? PDF Stampa E-mail
lunedì 04 luglio 2011
di FRANCESCO VOLPE

La legge, spesso, non si degna di usare la parola "urbanistica", preferendo l'espressione "governo del territorio".

Una volta tanto, la perifrasi rende piuttosto bene l'idea: attraverso i piani regolatori l'autorità amministrativa competente - quale essa sia - dovrebbe imprimere alle varie parti del territorio comunale le destinazioni territorialmente più idonee. Collocare gli opifici, le case, i centri commerciali, le zone artigianali e le opere pubbliche là dove è più acconcio. E prevedere che le relative opere siano erette secondo criteri coerenti. Salvaguardare le aree agricole; proporzionare gli interventi alle esigenze reali senza consumare, con l'edificazione, più territorio di quel che è necessario.

Ora, tutti sappiamo benissimo che l'urbanistica e l'economia sono strettamente legate; in questa sede, quasi neppure toccherebbe ricordare che il valore di una zona residenziale di espansione è  ben diverso da quello  di un'area agricola; che ancora diverso è il valore di un'area commerciale.

Ciò non ostante, il criterio economico è sempre rimasto, almeno formalmente, sotto traccia, giacché il primo interesse da salvaguardare, con i piani regolatori, è quello di un'ordinata edificazione.

La stessa giurisprudenza, nel passato, è stata piuttosto ferma nel negare che interessi diversi da quelli urbanistici propriamente detti potessero entrare in gioco, nella formazione dei piani regolatori, tanto che spesso sono state dette illegittime quelle previsioni urbanistiche volte a tutelare l'interesse della salute e, perfino, quello dell'ambiente e del paesaggio.

Ho l'impressione che, oggi, le cose siano cambiate, per effetto di specifiche previsioni normative e in conseguenza di una prassi applicativa che, non raramente, ha ottenuto il benestare dei giudici.

Il tutto mi pare portare verso una precisa direzione, che esporrò al termine di questa mia breve nota.

Per intanto, evidenzierò i presupposti che hanno causato quello che, a mio avviso, è una modificazione funzionale degli strumenti urbanistici.

Il primo presupposto, indubbiamente, è stato dato dall'urbanistica negoziata. Oggi  Comuni e privati fanno accordi su quello che sarà il contenuto del futuro strumento urbanistico, tanto avendo a riguardo la disciplina regolamentare in esso contenuto, quanto con riferimento alla disciplina di dettaglio, propria, in Veneto, del piano degli interventi.

Il secondo presupposto è stato dato dall'applicazione distorta del criterio perequativo. La perequazione, in origine, si poneva tra soggetti privati: tra il  proprietario dell'area edificabile e quello dell'area che tale non era. Attraverso il sistema dei crediti edilizi, venivano a ripartirsi, insieme agli svantaggi dell'attività edificatoria, anche i vantaggi, che non venivano così a dipendere dall'eventualità, per le verità piuttosto arbitraria, di essere collocati al di qua o al di là di un segno di matita, posto sulle planimetrie comunali. Successivamente, però, alla perequazione ha partecipato anche il Comune, quasi che quello fosse accomunato alle sorti fortunate dei cittadini e quasi che l'edificabilità discenda dalla sua volontà (e non dipenda dalla vocazione dell'area in sé). Cosicché l'edificabilità dell'area è risultata spesso subordinata, nelle previsione urbanistica, all'esecuzione di opere straordinarie ovvero alla graziosa donazione di alloggi popolari, di unità immobiliari a favore dell'ente pubblico o, meno elegantemente, di comunissimi versamenti in numerario a favore dell'Ente pubblico (magari calcolati sull'aumento di valore per effetto ottenuto dall'area per effetto della nuova destinazione impressa). Queste concessioni - in gergo  chiamate anche  "oneri fuori piano" - si sono così sommate agli oneri di urbanizzazione, ai costi di costruzione e alle opere di urbanizzazione, che essi soli sono per legge previsti e dovuti.  Gli oneri fuori piano hanno finito per indicare una sorta di dazio che l'aspirante costruttore deve sopportare onde realizzare il proprio intento.

Il terzo presupposto - attuatosi anche in Veneto, ma, per il vero, piuttosto diffuso anche in altre Regioni - attiene alla scomposizione del piano regolatore generale nel c.d. piano degli indirizzi e nel c.d. piano operativo. La misura, ritengo, è stata originariamente pensata per pure ragioni di competenza e, in Veneto, era stata preceduta dalla riforma dell'art. 50 della vecchia legge urbanistica regionale, n. 61/1985. Si è pensato che non avesse molto senso (specie in una clima di accentuata "sussidiarietà") sottoporre  ogni puntuale previsione di piano al vaglio della  Regione ovvero della Provincia. Tanto valeva consentire al Comune di far da sé, una volta tracciate le linee generali del piano. Accanto a questo obiettivo, però, sono derivate conseguenze, mi auguro, impreviste.

Con il Piano di assetto del territorio, infatti,  è stabilita la s.a.u. dell'intero territorio comunale: un monte di metri quadri edificabili che costituiscono il massimo del territorio edificabile, ma che non sono ancora localizzati. A ciò penserà, infatti, il piano degli interventi, scegliendo tra le varie aree che il P.A.T. ha dichiarato idonee ad ospitare le nuove zone di espansione.

Cosa sta succedendo, dunque? Succede che le aree potenzialmente edificabili sulla base del P.A.T., ma non ancora zonizzate in tal senso, entrano in gara tra di loro. Alcune risulteranno davvero edificabili, altre no con il piano degli interventi: il che implica che, al termine, ci saranno dei vincitori e dei vinti.

Ogni gara dà il premio al miglior concorrente e costui sarà quello che è in grado di offrire di più, con  la veste delle misure perequative, all'arbitro della gara, cioè al Comune.

Costui, a sua volta, assegnerà la palma a chi sarà disposto a sottoscrivere un accordo urbanistico, nelle forme più vantaggiose possibili per l'ente pubblico. "Quanto sei disposto a darmi, in cambio della destinazione di edificabilità?". È questo il discorso che molti Comuni, infine, espongono agli interessati. Ed è un discorso che, se fosse stato formulato solo una quindicina di dieci anni fa avrebbe fatto pensare immediatamente a conseguenze penali.

Ora, da questo sistema, quali conseguenze si debbono trarre?

Viene molto indebolita, a parer mio, la funzione urbanistica in sé. Una certa area diventa edificabile non in base alla sua oggettiva idoneità (che è cosa indipendente dalla contingente situazione dominicale della stessa), ma sulla base di quanto è in grado di offrire il singolo operatore commerciale.

Chi, proprietario di un'area potenzialmente edificabile, giusta le previsioni di principio del P.A.T., aspirasse a costruire semplicemente versando gli oneri di urbanizzazione e i costi di costruzione è fatalmente destinato a recedere dal suo intento.

Egli, se vorrà edificare, dovrà partecipare alla "gara". Quest'ultima, poi, non è certo una gara regolata sulla base del codice dei contratti, perché qui non si tratta di assegnare un servizio, una fornitura o l'esecuzione di un'opera. È  dunque una gara condotta ad personam e senza garanzie. Ma dalla quale possono dipendere vere e proprie fortune.

Il piano regolatore, così, diventa una forma, neppure troppo criptata, di strumento fiscale, che si attua per mezzo della contrattazione. Questa è, senza dubbio, una funzione che i piani regolatori stanno assumendo e che si affianca a quella urbanistica propriamente detta.

Ma la partecipazione del Comune, per mezzo della c.d. perequazione, agli utili delle lottizzazioni implica anche un intervento  del medesimo Comune nell'economia locale. Fissando straordinari oneri fuori piano, il Comune, infatti, è in grado di incentivare o di bloccare una determinata iniziativa urbanistica, seconda l'altezza a cui è posta l'asticella dei medesimi oneri. Si tratta di quello che, nel diritto pubblico dell'economia, è definito intervento indiretto, perché, ivi, la funzione economica non è governata mediante misure coercitive, ma con la partecipazione dello stesso ente pubblico all'"affare".

Infine, concedere o negare crediti edilizi - a seconda  che una determinata realtà edilizia venga avviata o, invece, venga cessata - costituisce modo per favorire la costituzione di nuove realtà imprenditoriali o per farle cessare.

Si potrebbe continuare con molte altre esemplificazioni, derivanti dalla previsione generale degli obiettivi, contenuta nel P.A.T.

Da tutto ciò traggo spunto per sostenere che l'urbanistica non sia più il solo obiettivo di un piano regolatore. Esso, in realtà, è diventato un vero e proprio piano di programmazione economica.

Perché è con il piano regolatore che il Comune programma (nel quid, non solo nell'an) le proprie entrate, perché è con il piano regolatore e con gli annessi accordi (stipulati individualmente e prima della zonizzazione) che il Comune è in grado di decidere l'insorgenza o la continuata attività di un'impresa.

È corretto, tutto ciò?

L'art. 41 Cost. è, obiettivamente, una norma dal contenuto ambiguo ed equivoco. Tuttavia, esso continua a dire che l'iniziativa economica privata è libera.

Un tempo, poi, si diceva che lo ius aedificandi appartiene al diritto di proprietà. Personalmente, io ho sempre creduto poco a questa asserzione, se collocata sul piano giuridico. Sul piano ideologico, invece, essa aveva - ed ha - un significato di notevole  rilievo. Ma è ancora possibile affermare tale appartenenza dello ius adedificandi alla proprietà, quando le sorti edificatorie sono collegate ad un corrispettivo, sotto forma di "oneri fuori piano", che l'imprenditore deve versare, in cambio della destinazione urbanistica dell'area?

Spunti per dubitare sulla coerenza giuridica di questo nuovo orientamento, assunto dall'urbanistica, dunque, ci sono.

Ma, trascurando per un momento il piano delle valutazioni giuridiche e formali, a me -  sia ben inteso,  è solo la mia opinione personalissima - piace assai poco l'idea di un Comune che sia regista dell'economia privata.

 
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