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La “costituzionalizzazione” del principio del pareggio di bilancio dello Stato PDF Stampa E-mail
lunedì 19 settembre 2011

di Giovanni Attilio De Martin

 

La legge, preordinata ad aggiungere all’Articolo 81 della Costituzione l’obbligo del “pareggio” del bilancio dello Stato nel preciso significato che il totale complessivo della spesa pubblica dovrà rinvenire la propria copertura nell’ammontare delle entrare fiscali/tributarie e mai più superare quest’ultime, esprime un principio di corretta amministrazione. Tuttavia, proprio perché un tale meccanismo è destinato ad imprimere una svolta storica all’andamento della spesa pubblica in Italia, esso presenta il rischio di produrre effetti negativi, anche di notevole portata, se non adeguatamente bilanciato sul versante delle entrate pubbliche. Infatti, qualora (come è oggi) la spesa pubblica tenda ad espandersi per fronteggiarla, nel rispetto del principio (che sarà costituzionale) del pareggio del bilancio, necessiterà aumentare le entrate e, pertanto, agire sulla loro principale fonte vale a dire l’imposizione fiscale. A tal riguardo, la Costituzione Repubblicana non stabilisce alcuna soglia o tetto invalicabile, a differenza di quanto avviene per la libertà personale, limitandosi ad enunciare (all’Articolo 53) i due fondamentali principi della proporzionalità rispetto alla capacità contributiva e della progressività. Pertanto, allorquando il cc.dd. pareggio di bilancio diventerà una effettiva norma costituzionale (al termine del relativo iter parlamentare), si porrà senza dubbio il quesito se l’imposizione fiscale sia senza limiti, soprattutto se orientata a salvaguardare il precitato valore neo costituzionale, ovvero se i limiti sussistano e di che limiti si tratti. Rimanendo al livello dei principi giuridici contenuti nella medesima Costituzione (e senza esporre discorsi di natura politica) un primo tetto all’imposizione fiscale è desumibile dalla necessità di evitare che essa si traduca nella confisca generale (ovvero anche parziale) del patrimonio personale dell’individuo in contrasto con il principio costituzionale che vuole la proprietà privata riconosciuta e garantita dalla legge e la cui funzione sociale incide certamente sull’acquisto, il godimento ed i limiti (Articolo 42, comma II^, Costituzione) fermo restando, tuttavia, che l’espropriazione è soggetta ad indennizzo (Articolo 42, comma III^, Costituzione). Si tratta, comunque, di un tetto molto remoto, eccessivamente lontano per assicurare un giusto equilibrio fra le esigenze pubbliche e l’intangibilità della sfera privata. Tuttavia, a ben meditare, il principio guida dell’imposizione fiscale deve essere ricercato in quell’enunciato, incisivo ed effettivamente molto moderno, con il quale si apre la Carta Costituzionale vale a dire che la Repubblica è fondata sul lavoro (Articolo 1 della Costituzione). Se così è allorquando l’imposizione fiscale raggiunge valori tali che allontanano il lavoratore (sia Egli dipendente e/o autonomo) dal lavoro, perché lavorare costituisce fatica inutile ed infruttuosa; quando è meglio non lavorare in quanto gran parte o tutto ciò che si guadagna se ne va in imposte, siamo di fronte ad un sistema fiscale indiscutibilmente incostituzionale. Pertanto, se è giusto costituzionalizzare il principio del cc.dd. pareggio del bilancio dello Stato altrettanto giusto sarebbe costituzionalizzare il principio secondo il quale l’imposizione tributaria deve essere tale da non vanificare l’interesse umano per il lavoro e, quindi, che essa deve arrestarsi allorquando il compenso per il prodotto del lavoro che va a colpire non sarebbe più, al netto dell’imposta, economicamente e socialmente adeguato.

Si sottolinea che il presente modesto contributo riflette, come sempre, le opinioni, meditate ma del tutto personali, di colui che lo ha redatto. L’occasione risulta gradita per augurare buon rientro dalle ferie a tutti e buon lavoro.

Padova, lì 17.09.2011                                                Giovanni Attilio De Martin

Ultimo aggiornamento ( lunedì 19 settembre 2011 )
 
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