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Tutela corpi idrici e uso del territorio PDF Stampa E-mail
martedì 08 novembre 2011

di Stefano Canal.

Il complesso intreccio che unisce acqua e territorio abbraccia un elevato numero di situazioni che l’ordinamento giuridico tenta di imbrigliare dettando un complesso di opportune regole e strumenti di tutela.

Sussistono, infatti, molteplici disposizioni che incidono nel rapporto acqua – uso del territorio, disposizioni che sono espressione di interessi indubbiamente eterogenei (cfr. a pag. VII la Prefazione per il Codice delle acque pubbliche, Giuffrè 2003, scritta da Silvio Pieri).

Volendo esemplificare, si possono immaginare da un lato una serie di regole intese a tutelare genericamente l’acqua dal territorio e da un suo invasivo utilizzo: norme che possono richiedere il mantenimento di una certa distanza da un corso d’acqua nello svolgimento di una determinata trasformazione del suolo, ovvero norme che impongono di acquisire pareri o nulla osta da parte di Autorità che presiedono ai vincoli esistenti. D’altro canto, però, vi è anche l’esigenza che il territorio sia tutelato dalle invasioni delle acque, esigenza che trova riscontro in altri comparti della normativa.

Il tema dell’acqua e dei rapporti tra questa e la fruizione del territorio è, quindi, un tema poliedrico, che può venire osservato da svariati punti di vista.

Per questo, nella consapevolezza di muovermi in una materia diversificata coperta da piuttosto spessa coltre normativa, ho cercato di individuare alcuni spunti che ho trovato più interessanti, nel tentativo di tracciare un percorso argomentativo che potesse svilupparsi secondo una certa logica.

In quest’ottica, i punti che avrei selezionato sono cinque:

a) il tema che proverò ad approcciare per primo è quello della difesa del suolo nella normativa statale e come si sia giunti alla sua attuale formulazione;

b) passerei, poi, alle disposizioni regionali che si occupano di riflesso della difesa del suolo nell’ambito del governo del territorio;

c) interessante, come terzo punto, ho trovato il problema dei rapporti intercorrenti tra i piani preposti alla difesa del suolo istituiti da fonte statale ed i piani urbanistici contemplati dalla normativa regionale;

d) d’attualità mi pare, poi, accennare alla relazione esistente tra gli strumenti di difesa del suolo e la crescita edilizia prevista dal Piano Casa;

e) da ultimo, se avanzerà tempo, vorrei fare un breve passaggio sulla giustiziabilità dei provvedimenti amministrativi assunti in materia di difesa del suolo.

- A -

Come è noto, i rapporti suolo-acqua trovano la loro fonte di regolamentazione principale nelle disposizioni statali che sono state radunate nel D.lgs n. 152/2006, Testo Unico dell’Ambiente.

In particolare, la materia della difesa del suolo è trattata nella parte terza del Testo unico, parte che risulta suddivisa in tre sezioni: 1) norme in materia di difesa del suolo e lotta alla desertificazione; 2) tutela delle acque dall’inquinamento; 3) gestione delle risorse idriche.

Come anticipato, intenderei qui rimanere sul fronte della difesa del suolo, che mi pare maggiormente attinente al titolo oggi in calendario, titolo teso a focalizzare proprio la questione dell’interazione tra acqua e il territorio.

In proposito, torna utile partire dalla considerazione che l’esigenza di regolare tale interazione acqua-suolo ha radici piuttosto lontane nel nostro ordinamento, tant’è che la normativa di cui oggi disponiamo è il frutto di una stratificazione di testi che sono andati via via sedimentandosi nel tempo. Molto spesso, per non dire quasi sempre, queste norme sono state il frutto di tardive risposte del Legislatore ad eventi drammatici che hanno coinvolto il nostro Paese, si pensi dall’alluvione del 4 novembre del 1966 o alla piuttosto recente frana di Sarno del 5 maggio 1998.

Il modus operandi rimane purtroppo quello di inseguire il problema una volta che esso è esploso in tutte le sue negative e spesso catastrofiche conseguenze, il più delle volte calando sulla testa delle varie amministrazioni interessate pacchetti normativi che queste non sono (state) in grado di metabolizzare. Il risultato al quale si è per lo più assistito, e ancor oggi si assiste, è che il problema viene solamente spostato di livello, da quello legislativo a quello esecutivo o amministrativo, ma senza che vengano fornite soluzioni adeguate e tempestive.

* * *

Ciò detto, di difesa del suolo si occupò già l’Allegato F della legge 2248/1865 che, nell’ambito del testo unico sui lavori pubblici, recava norme a tutela degli abitati e della campagne. Successivamente, importanza primaria hanno rivestito, da un lato il R.D. 523/1904 contenente il testo unico sulle opere idrauliche inteso alla tutela delle sponde dei fiumi e dei laghi e, dall’altro lato, il R.D. n. 3267/1923 sulla legislazione in materia di boschi e territori montani, volta a salvaguardare il territorio da frane, smottamenti, inondazioni ed eventi simili, e recante anche vincoli per la proprietà privata.

Tra l’altro, sulla scorta di tale ultima legislazione è stato formulato anche l’art. 866 del codice civile che ha fissato taluni limiti al diritto di proprietà scaturenti da esigenze di natura idrogeologica, prescrivendo appunto che “Anche indipendentemente da un piano di bonifica, i terreni di qualsiasi natura e destinazione possono essere sottoposti a vincolo idrogeologico, osservate le forme e le condizioni stabilite dalla legge speciale, al fine di evitare che possano con danno pubblico subire denudazioni, perdere la stabilità o turbare il regime delle acque.

L'utilizzazione dei terreni e l'eventuale loro trasformazione, la qualità delle colture, il governo dei boschi e dei pascoli sono assoggettati, per effetto del vincolo, alle limitazioni stabilite dalle leggi in materia.

Parimenti, a norma della legge speciale, possono essere sottoposti a limitazione nella loro utilizzazione i boschi che per la loro speciale ubicazione difendono terreni o fabbricati dalla caduta di valanghe, dal rotolamento dei sassi, dal sorrenamento e dalla furia dei venti, e quelli ritenuti utili per le condizioni igieniche locali”.

Come accennavo, le necessità di tutelare il territorio dai rischi idrogeologici divennero però improrogabili a seguito dell’alluvione del 1966 che diede la stura, è proprio il caso di dirlo, ad un nuovo ed importante approccio al problema. A seguito degli eventi alluvionali del 1966 che devastarono diverse regioni l’Italia, venne, infatti, come prima risposta costituita una Commissione Ministeriale presieduta dal prof. Giuliano De Marchi col compito di verificare lo stato di attuazione del “Piano orientativo per la regolazione dei corsi d’acqua” istituito con la legge n. 184/1952.

Al termine dei lavori di tale Commissione, ne venne istituita con legge 632/1967 una seconda interministeriale, composta di 90 membri sempre sotto la presidenza dal prof. De Marchi, con il compito di individuare quali correttivi sul piano legislativo e su quello dell’organizzazione burocratica fosse necessario apportare al fine di disporre di strumenti efficaci a scongiurare, o perlomeno mitigare, eventi calamitosi di carattere alluvionale. Onde capire quali azioni si rendessero necessarie, tanto sul fronte della gestione del territorio quanto su quello della organizzazione del servizio di difesa, la Commissione condusse un’indagine dettagliata su tutti i bacini idrografici italiani, tracciando quello che oggi chiameremo un “quadro conoscitivo”, sulla base del quale modulare le attività conseguenti.

Al termine di un lungo ed articolato lavoro, la Commissione propose sostanzialmente di replicare il modello del Magistrato alle acque, autorità già esistente ed operante per il fiume Po e nei bacini del Triveneto, estendendolo a tutto il territorio nazionale; in tal senso, un’intuizione senz’altro felice fu quella di individuare il bacino idrografico come territorio in cui pianificare le azioni a difesa del suolo e l’utilizzazione delle acque, prescindendo dai suoi confini geopolitici e privilegiando, quindi, un approccio di tipo funzionale. Mi sovviene, sul punto, l’insegnamento del prof. Benvenuti circa il rapporto tra territorio e funzione contenuto nel suo bellissimo e attualissimo volumetto su “Il Nuovo Cittadino”.

Il lavoro della Commissione De Marchi è da apprezzare, tuttavia, anche per aver raccomandato la necessità di coordinamento tra i piani di bacino e la pianificazione territoriale, segno evidente che nella nostra penisola la crescita urbanistica procedeva in quegli anni a passo spedito, forse pure troppo per curarsi delle diffuse fragilità ambientali presenti nel territorio. Si può, quindi, affermare che la Commissione De Marchi abbia gettato ancora nel 1970 le basi tecnico-scientifiche per l’avvento di una più moderna legislazione in questo settore.

* * *

Questa tanto attesa legislazione è, in effetti, poi intervenuta anche se dopo quasi vent’anni, si tratta della legge n. 183/1989, dopo un travagliato iter di approvazione durato ben tre legislature.

E’ innegabile, comunque, che la legge 183/1989 abbia costituito un notevole passo in avanti verso la creazione di un sistema integrale e/o integrato di difesa del suolo, tanto che l’art. 1 dichiarava come finalità di tale legge quella “di assicurare la difesa del suolo, il risanamento delle acque, la fruizione e la gestione del patrimonio idrico per gli usi di razionale sviluppo economico e sociale, la tutela degli aspetti ambientali ad essi connessi”, lasciando intravedere una visione a largo spettro, in precedenza sconosciuta.

In più, alla legge 183 si deve l’istituzione del “bacino idrografico” come territorio ottimale di governo delle varie azioni a difesa del suolo, modello che ancora oggi costituisce il punto di riferimento.

In seguito, per far fronte più efficacemente a situazioni di criticità che si rendevano col trascorrere del tempo più pressanti, la legge 183 venne novellata con D.L 398/1993 convertito in L. 493/1993 con l’introduzione di piani stralcio e l’istituzione di misure di salvaguardia: in sostanza, constatata la difficoltà della legge di andare a regime, si pensò in tal modo di dare la possibilità di creare stralci dei Piani di bacino, ossia strumenti privi di portata generale ed idonei a governare limitate aree all’interno dei bacini idrografici, consentendo anche di fronteggiare talune situazioni critiche con apposite misure di salvaguardia valevoli per tre anni.

Ma sul pur valido impianto della legge 183 non mancarono ben presto di addensarsi critiche soprattutto ad opera delle Regioni che ne rimarcavano la visione eccessivamente centralistica, rivendicando propri spazi di autonomia.

La questione, agitata tra le altre anche dalla Regione Veneto, approdò al vaglio della Consulta che con un’importante decisione, la n. 85/1990, sancì la conformità alla Carta costituzionale dell’impianto normativo, fornendo soprattutto importanti indirizzi circa il rapporto tra i piani di bacino e gli altri strumenti di pianificazione territoriale. Ma su questo aspetto diremo più oltre.

Lo stato di attuazione della legge fu, in seguito, sottoposto al vaglio di un’altra Commissione parlamentare, la Commissione Veltri, che esaminò luci ed ombre della 183, ribadendo ancora una volta la correttezza con cui si erano istituiti i bacini idrografici e le relative autorità, ma constatando ahimè anche la lentezza delle procedure per la formazione dei piani, nonché l’approssimazione redazionale dei piani di emergenza e delle misure di salvaguardia nel frattempo introdotte.

Il tutto mentre il territorio continuava ad essere da un lato, assediato dall’abusivismo edilizio o da strumenti urbanistici poco sensibili agli aspetti idrogeologici, e dall’altro minacciato dalla scarsa manutenzione delle opere di presidio e/o dall’insufficienza dei servizi di polizia idraulica.

Fu così che il sistema introdotto dalla legge 183 ricevette una decisa scossa per mezzo del Decreto Sarno del 1998 e dell’immediatamente successivo Decreto Soverato del 2000: va tenuto presente, in effetti, che la legge non prevedeva termini entro cui adottare ed approvare i Piani stralcio e nemmeno quali dovevano essere questi stralci, sicché ogni decisione veniva demandata alla discrezionalità e alla buona volontà delle Autorità di bacino.

Con il Decreto Sarno n. 180/1998 (convertito in Legge 267/1998, in particolare, venne disposta la perimetrazione delle aree a maggior rischio e, soprattutto, si impose alle Autorità di Bacino di provvedere alla redazione dei Piani Stralcio “assetto idrogeologico”, meglio noti con l’acronimo di PAI, entro termini assai stringenti (puntualmente, poi prorogati dalla stessa legge di conversione).

Coevo al decreto Sarno è il DPCM del 29 settembre 1998 che mi sembra importante richiamare dal momento che con tale decreto sono state uniformate su tutto il territorio nazionale le metodologie per definire le aree a pericolosità idraulica, così da rendere i Piani per quanto possibile omogenei tra loro. Il fine evidente è quello di assicurare una conformità di giudizio e un uguale grado di tutela a parità di rischio, in modo da garantire identico grado di protezione a tutti i cittadini ed ai loro beni.

Dopo un paio di anni, si diceva, venne emanato un successivo decreto, il n. 279/2000 (convertito in L. 365/2000 e meglio conosciuto come Decreto Soverato), che si è preoccupato, tra l’altro, di meglio coordinare la pianificazione ambientale con quella territoriale, mediante una conferenza programmatica indetta dalla Regione e articolata in sezioni provinciali, con il coinvolgimento degli enti locali interessati e ovviamente delle Autorità di bacino.

La legge 183, in definitiva, ha ininterrottamente cercato di rincorrere gli eventi, invece di governarli ex ante, dimostrando una endemica difficoltà nel venire attuata, difficoltà solo in parte temperata con interventi propulsivi che potessero accelerare l’effettività di improrogabili strumenti di tutela.

* * *

Prima di affrontare il testo del D.lgs n. 152/2006, decreto che ha abrogato la citata legge 183/89 recependone solo in parte i contenuti, va ricordato che il testo unico dell’ambiente non poteva non tener conto della direttiva comunitaria 2000/60, direttiva quadro in materia di acque che ha costituito un importante momento di semplificazione delle tante direttive europee presenti in argomento.

Occorre sottolineare, al riguardo, come tale direttiva abbia spostato il baricentro sul Distretto idrografico, vale a dire di un’area di terra e di mare formata da uno o più Bacini idrografici confinanti e dalle rispettive acque.

Peraltro, è curioso che la legge delega n. 308/2004, dalla quale è poi scaturito il testo unico, non richiamasse la predetta direttiva comunitaria in materia di acque, ed in tal senso la stessa legge delega non aveva disposto che le Autorità di Bacino istituite dalla legge 183/89 dovessero venire inglobate all’interno delle Autorità di bacino distrettuali, previste dalla direttiva.

In ogni caso, come evidenzia la Corte Costituzionale con sentenza n. 232/2009, la legge delega consentiva di introdurre innovazioni all’ordinamento previgente, per cui non si può dire che il Legislatore delegato abbia deragliato.

* * *

Dopo questo breve excursus storico è ora di venire alle norme vigenti che, come detto, sono condensate nella parte terza del D.lgs n. 152/2006. Tale parte riassume sostanzialmente il portato di tre testi fondamentali, la più volte citata 183/1989, la legge 36/1994 meglio nota come legge Galli, e il D.lgs 152/1999 sulla tutela delle acque dall’inquinamento.

Di primo acchito, già il fatto che sussista una testo di legge che racchiude la disciplina della difesa del suolo e della tutela delle acque mi pare possa essere considerato un buon passo in avanti che dovrebbe contribuire a rendere gli istituti maggiormente coordinati tra loro.

In estrema sintesi, l’attuale regolamentazione si propone di rispondere a quattro obiettivi dichiarati, enucleati nell’art. 53, vale a dire: 1) la tutela ed il risanamento del suolo e del sottosuolo, 2) il risanamento idrogeologico del territorio, 3) la messa in sicurezza delle situazioni a rischio e 4) la lotta alla desertificazione.

Nel loro complesso questi obiettivi mirano al più generale fine della difesa del suolo definita, all’art. 54 lett. u), come “il complesso delle azioni ed attività riferibili alla tutela e salvaguardia del territorio, dei fiumi, dei canali e collettori, degli specchi lacuali, delle lagune, della fascia costiera, delle acque sotterranee, nonché del territorio a questi connesso, aventi le finalità di ridurre il rischio idraulico, stabilizzare i fenomeni di dissesto geologico, ottimizzare l’uso e la gestione del patrimonio idrico, valorizzare le caratteristiche ambientali e paesaggistiche collegate”.

E’ bene, però, chiarire che le varie definizioni recate dall’art. 54, come ricorda il primo comma valgono espressamente solo ai fini della “presente sezione”, mentre per la sezione successiva, quella sulla tutela delle acque, valgono altre definizioni, quelle dettate dall’art. 74. Certo, vien da dire, nell’ottica di un coordinamento tra suolo e acqua si poteva forse pensare di fare uno sforzo per provare ad arrivare a delle definizioni valide per entrambi i settori.

Per il perseguimento delle finalità dichiarate dall’art. 53, all’art. 56 viene messa in campo una nutrita serie di attività di pianificazione, di programmazione e di attuazione, tra cui, ad esempio “a) la sistemazione, la conservazione ed il recupero del suolo nei bacini idrografici, con interventi idrogeologici, idraulici, idraulico-forestali, idraulico-agrari, silvo-pastorali, di forestazione e di bonifica (…); b) la difesa, la sistemazione e la regolazione dei corsi d'acqua (…); c) la moderazione delle piene, anche mediante serbatoi di invaso, vasche di laminazione, casse di espansione, (…) per la difesa dalle inondazioni e dagli allagamenti; e) la difesa e il consolidamento dei versanti e delle aree instabili, nonché la difesa degli abitati e delle infrastrutture contro i movimenti franosi, le valanghe e altri fenomeni di dissesto; g) la protezione delle coste e degli abitati dall'invasione e dall'erosione delle acque marine ed il rifacimento degli arenili, anche mediante opere di ricostituzione dei cordoni dunosi; h) la razionale utilizzazione delle risorse idriche superficiali e profonde, con una efficiente rete idraulica, irrigua ed idrica, garantendo, comunque, che l'insieme delle derivazioni non pregiudichi il minimo deflusso vitale negli alvei sottesi nonché la polizia delle acque”.

Ebbene, non mi pare inutile evidenziare che l’elencazione delle varie attività previste risulta preceduta dalla locuzione “in particolare”: ciò a me è sembrato indicativo del fatto che il raggiungimento delle finalità evidenziate possa esplicarsi anche a mezzo di attività non necessariamente previste dalla legge tra quelle di pianificazione, programmazione e attuazione, rimanendo dunque teoricamente possibile il ricorso ad azioni non tipizzate, se ciò sia confacente al raggiungimento dei fini.

Da notare, poi, che nel secondo comma sempre dell’art. 56 si torna a ribadire la necessità, che aveva in precedenza animato l’emissione del ricordato DPCM del 29 settembre 1998, di introdurre in tutto il territorio nazionale “criteri, metodi e standard” finalizzati a garantire l’omogeneità delle condizioni di salvaguardia della vita umana, del territorio compresi gli abitati ed i beni, nonché uniformi modalità di utilizzazione delle risorse, dei beni e di gestione dei servizi connessi.

Quanto all’articolazione delle competenze, quel che sembra emergere è che la difesa del suolo si sostanzia in una serie di azioni da eseguirsi a vari livelli, senza che ciò traduca un ridisegno delle competenze spettanti a Stato e Regioni, di talché ognuno, nell’ambito delle proprie prerogative rimane chiamato per così dire a fare la propria parte, prestando il proprio contributo per pianificare ed attuare le necessarie forme di tutela.

Per quel che afferisce alle competenze centrali, degno di menzione è il potere sostitutivo che l’art. 57, comma 1, lett. a) punto 3, riserva al Presidente del Consiglio dei Ministri il quale con proprio decreto è chiamato ad approvare “gli atti volti a provvedere in via sostitutiva, previa diffida, in caso di persistente inattività dei soggetti ai quali sono demandate le funzioni previste dalla presente sezione”. Ci si è chiesti se l’esercizio di un tale potere sostitutivo non potesse in qualche modo alterare il riparto di competenze Stato – Regioni, potendo il primo avocare a sé, seppur in via sostitutiva e temporanea, competenze spettanti agli Enti locali. Tale norma, già presente e oggetto delle doglianze nel vigore della legge precedente, è stata tuttavia riconosciuta conforme ai precetti costituzionali, mediante la sentenza della Consulta n. 85/90 che evidenzia sul punto come “la legge n. 183 del 1989 non si propone in via principale di stabilire una nuova ripartizione di competenze tra Stato e regioni, ma fissa piuttosto un obiettivo - la difesa del suolo - da raggiungere attraverso una complessa pianificazione dei settori materiali coinvolti”.

Forse è anche per effetto di questa pronuncia che, nel disegnare le competenze assegnate alle Regioni, l’art. 61 si preoccupa di puntualizzare che le medesime “esercitano le funzioni ed i compiti ad esse spettanti nel quadro delle competenze costituzionalmente determinate e nel rispetto delle attribuzioni statali”, come se, in assenza di siffatta previsione, potesse essere vero il contrario e cioè che le Regioni possono essere destinatarie di funzioni aliene rispetto a quelle previste nel riparto costituzionale.

Peraltro, anche l’elencazione delle competenze regionali viene fatta precedere dalla locuzione “in particolare”, per il che abilita ad escludere la natura tassativa dell’elenco lasciando spazio anche ad eventuali altre competenze che le Regioni possano assumere: e anche questo mi sembra possa andare nel senso di proteggere la norma da possibili attacchi di incostituzionalità.

In realtà, forse la vera novità del Testo unico è che le Regioni non sono più chiamate ad approvare i Piani di Bacino, poiché il livello di governance è stato ora portato a quello del distretto idrografico, quindi in sostanza partecipano e collaborano sotto varie forme nella stesura degli strumenti ordinari per la difesa del suolo.

Il sistema, infatti, prevede adesso (ai sensi dell’art. 64) in tutto 8 distretti idrografici, ovverossia Alpi Orientali, Padano, Appennino settentrionale, distretto sperimentale del Serchio, Appennino centrale, Appennino meridionale, Sardegna e Sicilia, ciascuno dei quali comprende nel suo seno i bacini idrografici costituiti in base alle vecchia legge 183.

* * *

Fatte queste concise osservazioni, posto che sui Piani di bacino, sui PAI e sulle relative misure di salvaguardia vorrei dire qualcosa tra poco parlando del loro rapporto con la pianificazione territoriale, quel che mi pare invece utile tentare di mettere a fuoco è la questione della disciplina transitoria del codice prevista dall’art. 170 che mi risulta tutt’ora vigente, malgrado siano passati oltre cinque anni dall’entrata in vigore del D.lgs. 152/2006. Temporaneamente, infatti, continua a essere in parte applicabile (in quanto compatibile) il portato della legge 183/89 espressamente abrogata dallo stesso Testo unico, posto che i Distretti idrografici risultano attualmente ancora sulla carta, mentre continuano ad operare i Bacini esistenti.

* * *

Ebbene, va innanzitutto detto che l’art. 170 è stato modificato da un paio di decreti così detti correttivi, vale a dire il D.lgs. 284/2006 e il D.L 208/2008 quest’ultimo poi convertito con L 13/2009: in sostanza col primo è stato aggiunto il comma 2 bis, comma che il secondo Decreto ha poi provveduto a modificare.

Insomma, il testo attuale di questo comma 2 bis prevede testualmente che “nelle more della costituzione dei distretti idrografici di cui al Titolo II della Parte terza del presente decreto e della eventuale revisione della relativa disciplina legislativa, le Autorità di bacino di cui alla legge 18 maggio 1989, n. 183, sono prorogate senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica fino alla data di entrata in vigore del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui al comma 2, dell’articolo 63 del presente decreto”.

Pare di capire in sostanza che, sino a quando non interviene tale ultimo decreto del Presidente del Consiglio, che dovrebbe occuparsi di prevedere i criteri e le modalità per il trasferimento del personale e delle risorse dalle Autorità di bacino esistenti a quelle distrettuali, le Autorità di bacino stesse debbano giocoforza continuare ad esercitare tutte le loro funzioni.

Tra l’altro, il comma 2 bis, come visto, parla di “eventuale revisione della relativa disciplina legislativa”, dal che sembrerebbe del tutto legittimo attendersi che la parte terza del D.lgs 152/2006 vada incontro a delle modifiche: potrebbe, perciò, darsi il caso che si passi direttamente dalla disciplina transitoria ad una nuova disciplina, di talché potremmo anche assistere a disposizioni che seppur formalmente vigenti vengano abrogate ancor prima di aver potuto esplicare effetti.

Al riguardo, penso che una materia piuttosto delicata quale quella della difesa del suolo, dovrebbe essere regolata con disposizioni assistite da una certa stabilità dato che è in gioco la sicurezza delle persone e dei loro beni, mentre l’incertezza regna sempre più sovrana forse anche per la crescente difficoltà di rispettare quell’onnipresente refrain che vorrebbe riformare norme ed istituti “senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.

* * *

In secondo luogo, il comma 11 dello stesso art. 170, dispone che “fino all’emanazione di corrispondenti atti adottati in attuazione della parte terza del presente decreto, restano validi ed efficaci i provvedimenti e gli atti emanati in attuazione delle disposizioni di legge abrogate dall’articolo 175, tra le quali figura, come rilevato, la legge 183/89.

Tale disposizione si riferisce sicuramente agli atti emanati prima del TU sull’ambiente la cui efficacia viene dunque confermata, e non potrebbe che essere così.

Ma la norma non è detto che risulti riferibile anche agli atti che dovessero venire emanati in futuro, ossia dopo l’entrata in vigore del D.lgs. 152/2006, anche perché dice appunto che “restano validi ed efficaci i provvedimenti e gli atti emanati” (ergo già emanati), il che lascerebbe presupporre che tali atti e provvedimenti che debbono restare validi ed efficaci sono quelli che già lo sono, dal momento che risultavano già sussistenti.

Se così è, sembra che gli atti delle Autorità di bacino ancor oggi esistenti (in attesa della costituzione dei Distretti idrografici) che siano stati emanati dopo l’entrata in vigore del Codice dell’ambiente potrebbero risultare sforniti di copertura normativa dal momento che, il TU non risulta ancora del tutto applicabile, e la legge 183/89 è stata definitivamente abrogata.

Fortunatamente il Legislatore ha posto rimedio a questo problema mediante il secondo comma dell’art. 1 del secondo decreto correttivo (D.L. 208/2008) chiarendo che “fino alla data di entrata in vigore del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui all'articolo 170, comma 2-bis, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, come sostituito dal comma 1, sono fatti salvi gli atti posti in essere dalle Autorità di bacino di cui al presente articolo dal 30 aprile 2006.

Si tratta di una sorta di ratifica ora per allora dell’operato delle Autorità di bacino, la cui attività viene espressamente fatta salva a partire dal 30 aprile 2006, data di entrata in vigore del Testo Unico, e sino all’istituzione delle Autorità da porre alla testa dei Distretti idrografici.

Resta, in ogni caso, aperto il problema degli atti emanati dopo il secondo decreto correttivo i quali a questo punto dovrebbero almeno in teoria risultare anch’essi destinatari di una ratifica.

* * *

Tra l’altro, in base al primo comma dello stesso art. 170, dopo l’entrata in vigore delle nuove procedure previste dalla parte seconda del TU in materia di Valutazione ambientale strategica (VAS), scatta comunque l’applicazione delle nuove procedure per l’adozione ed approvazione dei piani di bacino, come previste dall’art. 66 (e non dall’art. 65 secondo l’erronea indicazione del Codice). Con lo strano effetto che entrano in scena i procedimenti per dar vita ai nuovi piani di bacino senza che esistano le nuove Autorità che vengono sempre chiamate “di bacino” ma che in realtà sono poste a capo dei Distretti idrografici.

Conclusivamente, se vogliamo, il Legislatore ha certamente dimostrato di aver almeno formalmente recepito le indicazioni della Direttiva comunitaria 2000/60 istituendo i Distretti idrografici (non previsti dalla legge delega) e adempiendo così agli obblighi comunitari, al punto che tale recepimento viene espressamente dichiarato alla lettera r) del quarto comma dell’art. 170.

Ma, le cose sul piano pratico stanno differentemente perché la riforma è stata lasciata in mezzo al guado e, stante la promessa contenuta nel comma 2 bis (che in molti ritengono debba essere mantenuta) di rimettere mano alla difesa del suolo, forse non guadagnerà mai l’altra riva.

- B -

Abbandonando le incertezze applicative della normativa nazionale, passiamo al secondo dei punti che mi ero prefisso in apertura, e cioè quello inerente le disposizioni della legislazione urbanistica regionale che tutelano il suolo.

Mi ha incuriosito, in particolare, vedere come siano stati coniugati in sede regionale la difesa del suolo con il governo del territorio, e in tal senso mi è sembrato logico indagare sul ruolo assunto dalla difesa del suolo nell’ambito della L.R. n. 11/2004.

Dico subito che le disposizioni che ci interessano non sono, in effetti, molte.

Un primo significativo accenno è contenuto nell’art. 2 della legge urbanistica regionale che, tra le finalità perseguite, include “la messa in sicurezza degli abitati e del territorio dai rischi sismici e di dissesto idrogeologico”, per cui è legittimo attendersi che una tutela in materia vi sia quale espressione autonoma di governo del territorio, quindi anche indipendentemente dalle indicazioni provenienti dalla pianificazione tipicamente orientata alla difesa del suolo.

In tale ottica, gli articoli 12 e 13 affidato al Piano di Assetto del Territorio di individuare, tra le invarianti anche quelle di natura geologica, geomorfologica ed idrogeologica, attribuendo alle medesime una “specifica normativa di tutela” “in conformità agli obiettivi ed agli indirizzi espressi nella pianificazione territoriale di livello superiore”.

Il PAT, quindi, non solo deve farsi carico di individuare le aree dove sussiste un suolo da difendere, ma deve pure farsi carico di organizzare un opportuna disciplina per la protezione di siffatte aree, e ciò in conformità, si dice, “alla superiore pianificazione territoriale”, riferendosi pertanto alla pianificazione urbanistica e non anche, eventualmente ad altri piani come i Piani di bacino, ai PAI ecc.

Da notare che nella procedura di approvazione dei PAT, di cui all’art. 14 comma 6, sia previsto che la Provincia possa introdurre modifiche d’ufficio necessarie alla “tutela delle invarianti di natura paesaggistica, ambientale, storico-monumentale e architettonica”, ossia di tutte le invarianti tranne quelle di natura geologica, geomorfologica e idrogeologica. Sicché risulta che, dinanzi alla previsione di uno sciagurato sviluppo edilizio su un area dissestata sotto il profilo idrogeologico, la Provincia non abbia alcuna voce in capitolo, non potendo attivarsi d’ufficio per rimediare a tale incongruenza.

Tale problema viene fortunatamente in parte temperato dal fatto che, in sede di approvazione, la Provincia può sempre modificare d’ufficio il PAT per renderlo conforme al Piano territoriale di coordinamento provinciale, sempreché tale Piano sia stato nel frattempo approvato e rechi una qualche forma di tutela.

Ricordo, in effetti, che in base all’art. 22, tocca al PTCP definire “gli aspetti relativi alla difesa del suolo e alla sicurezza degli insediamenti determinando, con particolare riferimento al rischio geologico, idraulico e idrogeologico e alla salvaguardia delle risorse del territorio, le condizioni di fragilità ambientale”, sicché è in tale livello di pianificazione che, in realtà, è legittimo attendersi un occhio più sensibile alla tematica della difesa del suolo.

Ma la norma della L.R. 11/2004 di maggior rilievo è l’art. 41 sulle zone di tutela e sulle fasce di rispetto che il PAT è chiamato ad individuare, tra le quali vi sono le aree soggette a dissesto idrogeologico e poi le golene, i corsi d’acqua, gli invasi naturali e artificiali e le aree ad essi adiacenti per una “profondità adeguata”. In sostanza, il Pianificatore comunale è chiamato non solo a censire corsi d’acqua e laghi, ma anche a prevedere una adeguata zona cuscinetto intorno agli stessi, rientrando nella discrezionalità del Comune stabilire quanto profonda debba essere questa fascia di rispetto per essere ritenuta adeguata.

Scorrendo l’art. 41 si scopre, però, che lo stesso prevede fasce di profondità di almeno 30 metri da fiumi, torrenti e canali, di 100 metri dall’unghia esterna di fiumi, torrenti e canali arginati e canali navigabili, di 100 metri dal limite demaniale dei laghi naturali ed artificiali, di 300 metri dal piede esterno degli argini principali e 100 metri dal limite esterno delle zone golenali del fiume Po, e di 200 metri dal limite demaniale della spiaggia per le coste marine.

In altri termini, prima si menziona una profondità adeguata che spetta al PAT decidere, e poi vengano stabilite delle misure molto precise. Viene il dubbio che quelle elencate possano essere distanze minime, per il che deporrebbe il fatto la lettera g) che precede il menzionato elenco di distanze prevede “una fascia di profondità di almeno”, là dove l’“almeno” fa intendere che sono possibili anche distanze superiori. Potrebbe stare in questo il giudizio di adeguatezza attribuito al Comune, stabilire se sia necessario aumentare la larghezza delle fasce di tutela rispetto a quanto previsto dalla legge.

In ogni caso, tali fasce di tutela sembrerebbero poter rientrare per la loro natura nel novero delle invarianti, vista anche la loro finalità di fungere da ammortizzatori tra una zona ove opera una specifica forma di tutela ed il resto del territorio. Sotto tale aspetto, è singolare che il secondo comma dell’art. 41 disponga che “il Piano degli Interventi può stabilire, limitatamente alle aree urbanizzate e a quelle ad esse contigue, distanze diverse da quelle previste dal comma 1 lettera g”, ossia di quelle che ho appena elencato come apparentemente minime ed inderogabili.

In definitiva, in presenza di un’area urbanizzata che va ad interferire con una fascia di rispetto posta a tutela di un corso d’acqua o di un lago, il Piano degli interventi è legittimato a scardinare tale tutela, anche se istituita col PAT come una sorta di invariante, al fine di lasciar espandere le facoltà edilizie mediante il semplice spostamento della linea di tutela. Si tratta di una norma per certi aspetti contraddittoria che consente di passare sopra le scelte di salvaguardia ambientale in precedenza fatte, pur di agevolare una crescita edilizia magari in zone non del tutto adatte o sicure.

- C -

Venendo al terzo di punti che intendevo esaminare, di sicura utilità pratica mi pare una riflessione sui rapporti intercorrenti tra i Piani di bacino e i Piani di assetto Idrogeologico da una parte, ed i Piani urbanistici in generale dall’altra.

In altri termini, il quesito che si pone è come i piani sulla difesa del suolo possano influire o condizionare l’attività edilizia prevista nei vari piani regolatori. Insomma, il punto è se gli strumenti posti a difesa del suolo abbiano natura direttamente vincolante per i privati cittadini, ovvero se i medesimi abbiano come destinatarie naturali le pubbliche amministrazioni che governano il territorio. In questo secondo caso, difatti, le norme poste a difesa del suolo dovrebbero trovare recepimento negli strumenti urbanistici prima di divenire vincolanti per i privati.

Al riguardo, giova muovere dalla constatazione che gli strumenti con cui il più delle volte ci si deve misurare sono i Piani stralcio per l’assetto idrogeologico, ossia quelli dettati dall’urgenza di individuare e regolamentare le aree a rischio idrogeologico e le necessarie misure di salvaguardia.

L’art. 68, comma terzo, del Codice dell’ambiente prevede, a tal proposito, che “ai fini dell’adozione ed attuazione dei piani stralcio e della necessaria coerenza tra pianificazione di distretto e pianificazione territoriale, le regioni convocano una conferenza programmatica (…) alla quale partecipano le province ed i comuni interessati (…)”. Tale conferenza ha il compito di fungere da trait d’union tra la difesa del suolo e la programmazione territoriale, in modo da scongiurare previsioni in conflitto tra loro, ed infatti, il comma 4 dell’art. 68 prevede che, all’esito di tale conferenza, dovranno essere indicate anche “le necessarie prescrizioni idrogeologiche ed urbanistiche”.

Qui apro una parentesi per segnalare che, a seguito degli eventi alluvionali accaduti tra il 31 ottobre ed il 2 novembre dello scorso anno, è stato approvato con delibera di Giunta regionale n. 953 del 5 luglio 2011 il parere reso dalla conferenza programmatica dei bacini idrografici dei fiumi Isonzo, Tagliamento, Piave e Brenta-Bacchiglione. Si tratta di una variante al PAI già esistente dal 2004, e già oggetto di una prima variante nel 2007, volta ad introdurre una serie di misure urgenti finalizzate a mitigare più efficacemente il rischio idrogeologico conclamatamente esistente. Il parere espresso dalla conferenza passa ora all’Autorità di bacino dell’Alto adriatico per il seguito di competenza. Per inciso, faccio notare che, nelle intenzioni del Codice, tale Autorità doveva venire assorbita nel Distretto idrografico delle Alpi orientali, mentre come si vede è ancora pienamente attiva.

* * *

Per quel che riguarda, invece, i veri e propri Piani di bacino il comma 4 dell’art. 65 del TU stabilisce che “le disposizioni del Piano di bacino approvato hanno carattere immediatamente vincolante per le amministrazioni ed enti pubblici, nonché per i soggetti privati, ove trattasi di prescrizioni dichiarate di tale efficacia dallo stesso Piano di bacino. In particolare, i piani e programmi di sviluppo socio economico e di assetto ed uso del territorio devono essere coordinati, o comunque non in contrasto con il Piano di bacino approvato”.

Tuttavia, occorre intenderci sul concetto di efficacia vincolante dei Piani di bacino, perché questo non può certo voler dire che i piani di bacino, pur avendo chiaramente natura sovraordinata, possano essere considerati come delle varianti agli strumenti urbanistici.

Difatti, la necessità di un recepimento da parte del PRG rimane comunque, soprattutto dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 524 del 9 dicembre 2002 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della previsione di indiscriminata efficacia di variante agli strumenti urbanistici per tutte le determinazioni assunte, tanto più con carattere permanente, in relazione al piano stralcio per l’assetto idrogeologico, in sede di comitato istituzionale dell’Autorità di bacino e ancorché a seguito di esame della conferenza programmatica con partecipazione regionale e dei comuni interessati, dal momento che tale previsione rappresenta una violazione della sfera di autonomia regionale in materia di pianificazione urbanistica, priva di qualsiasi giustificazione sul piano costituzionale.

Tale pronuncia, tra l’altro, era stata resa in applicazione della formulazione del Titolo V della Costituzione antecedente la riforma ad opera legge costituzionale n. 3/2001 che, com’è noto, ha rafforzato il peso specifico delle autonomie locali.

Attualmente, il comma 6 dell’art. 65 prevede che entro 90 giorni dalla pubblicazione del Piano di Bacino le regioni emanino, ove necessario, le disposizioni per l’attuazione del piano stesso inerenti il settore urbanistico. Ove questo termine dovesse spirare invano le disposizioni del piano di bacino vanno ritenute comunque applicabili in quanto prevalenti. Se poi i comuni non adeguano i loro piani urbanistici al piano di bacino entro sei mesi dalla data di comunicazione delle predette disposizioni di attuazione da parte della Regione, all’adeguamento provvede in via sostitutiva la Regione stessa.

In definitiva, i PAI e i Piani di bacino risultano certamente vincolanti per le amministrazioni pubbliche, ma lo sono di sicuro anche per i privati anche se non tradotti in pianificazione territoriale: al riguardo, in effetti, la giurisprudenza ha da un lato rilevato la natura sostanzialmente autonoma delle norme preposte alla difesa del suolo rispetto alla disciplina urbanistica, ribadendo la necessità di una interpretazione rigorosa alla luce degli interessi perseguiti e dei rischi connessi per la sicurezza pubblica (in tal senso TAR Liguria n. 252 del 2006) e, dall’altro, statuito che i tali piani danno luogo a immediati effetti limitativi delle potestà urbanistico edilizie dei comuni e dei connessi diritti ed interessi edificatori dei privati, al punto che possono essere oggetto di immediata ed autonoma impugnazione (così TAR Campania n. 7524 del 2003).

* * *

Un cenno a parte meritano le misure di salvaguardia che possono venire adottate in attesa dell’approvazione dei piani di bacino e che risultano immediatamente vincolanti, restando in vigore sino all’approvazione dei piani stessi. La relativa regolamentazione è racchiusa nel comma 7 dell’art. 65 del TU.

Al riguardo, la Suprema Corte ha ribadito più volte -si vedano, ad esempio, le sentenze a Sezioni unite n. 12084/2006 e 5318/2004- che l’esercizio del potere di adottare misure di salvaguardia riservato alle Autorità di bacino presuppone l’adozione del Piano, pertanto, quando non sia ancora intervenuta tale adozione non sarà in alcun modo possibile introdurre misure di salvaguardia. La salvaguardia, difatti, riguarda le scelte effettuate nell’ambito del piano di bacino, la cui perseguibilità deve essere garantita, non le finalità a tutela delle quali il piano medesimo deve essere predisposto ed adottato.

In conclusione, si tratta di misure di salvaguardia che operano in maniera del tutto simile a quelle introdotte dalla famosa legge 1902 del 1952 a valere per i piani regolatori, poi replicate nelle legislazioni urbanistiche regionali.

Anche tali misure hanno una durata limitata nel tempo, al massimo di tre anni.

* * *

Da ultimo, solo una battuta sul fatto se i vincoli derivati dai PAI e dai Piani di Bacino possano essere o meno indennizzabili.

Ci si è chiesti, infatti, se questi vincoli potessero configurare una qualche forma di ablazione della proprietà privata, venendo in tal mondo ad essere parificati ai vincoli di natura urbanistica di contenuto espropriativo. Il codice non dice nulla su tale aspetto, quel che però viene da dire è che i vincoli posti dalla pianificazione che si occupa della difesa del suolo non sono vincoli di natura discrezionale, ma sono l’effetto di un accertamento di natura tecnico-scientifica che impone di apprestare una specifica tutela.

In tal senso, va ricordato che si è reputata “illegittima l’apposizione di un vincolo idrogeologico che interdica in assoluto l'attività edificatoria ove non preceduta da indagini tecniche effettive e documentate scientificamente da compiersi caso per caso volte ad accertare la reale e concreta pericolosità della zona, comportando tale vincolo una compressione del diritto di proprietà, tutelato dall’ordinamento (art. 42 cost. e 832 c.c.), rafforzato da un affidamento serio e logico” (TAR Abruzzo, Pescara, n. 38 del 2009).

Sotto tale profilo, proprio per il fatto di non essere il frutto di una scelta discrezionale, i medesimi vincoli non possono per loro natura rivestire natura temporanea e, conseguentemente, la loro permanenza non risulta suscettibile di indennizzo, come nel caso della riedizione di un vincolo di natura espropriativa.

Forse, sotto questo aspetto, i vincoli in questione assomigliano maggiormente ai vincoli di natura conformativa nel senso che, come chiarito dalla Consulta nella storica sentenza 179/1999, attengono all’essenza stessa della res oggetto di vincolo, per cui finché permane tale la natura del bene persiste necessariamente anche la relativa previsione vincolistica.

Un tanto, in effetti sembra confermato anche dal richiamato art. 866 del codice civile che prevede che la proprietà privata possa risultare soggetta a previsioni vincolistiche per esigenze idrogeologiche, senza che ciò si traduca in un pregiudizio meritevole di indennizzo.

- D -

Venendo al rapporto tra i vincoli a difesa del suolo e la possibilità edificatorie in deroga alla pianificazione urbanistica, ricordo subito che il Piano casa previsto dalla L.R. n. 14/2009 recentemente novellata dalla L.R. n. 13 del 2011, dispone alla lett. g) del primo comma dell’art. 9, che gli interventi previsti dagli artt. 2, 3 e 4 non trovano applicazione per gli edifici “ricadenti in aree dichiarate ad alta pericolosità idraulica e nelle quali non è consentita l’edificazione ai sensi del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 e successive modificazioni”.

Proprio su questo tema avevo scritto un breve commento comparso sulla Guida al Piano casa curato dagli avv.ti Dal Prà e Calegari, Guida che chi desidera può trovare (ritengo ancora) pubblicata sul sito della nostra Associazione.

Per cui, mi limiterei in questa sede solamente a qualche breve accenno.

La lettera g) dell’art. 9 blocca la nuova edificazione realizzabile col Piano casa in presenza di due circostanze e cioè: 1) la dichiarazione di alta pericolosità idraulica riferita ad una plaga di territorio, e 2) l’inedificabilità della zona sancita in applicazione del D.Lgs. n. 152/2006.

Per quel che riguarda il concetto di “alta pericolosità idraulica”, devo evidenziare come tale definizione vada necessariamente intesa in senso atecnico, dovendosi necessariamente ricomprendere in tale espressione tutte le condizioni di rischio, cui consegua il veto alla fabbricazione, che siano genericamente riconducibili a condizioni di dissesto idrogeologico e non solo idraulico.

Di tale possibile equivoco si è accorta anche la Regione che mediante la Circolare n. 4 del 29 settembre 2009 ha chiarito che “Il rinvio a tale testo normativo (il D.Lgs. n. 152/2006 n.d.r.) va riferito al rischio idrogeologico atteso che il rischio idraulico e geologico rientrano nella più ampia definizione di <<difesa del suolo>> fornita da Codice. E’ quindi implicito che siano escluse dall’applicazione della Legge regionale le aree e gli edifici in esse ricadenti che presentino aspetti di pericolosità sia idraulica che geologica e per le quali la relativa pianificazione preveda l’inedificabilità”. Che quest’ultima fosse la reale intenzione del Legislatore regionale pare fuori di dubbio, resta il fatto che la norma non brilla per chiarezza.

Tra l’altro, in molti casi la pericolosità idraulica si trova definita come “elevata” e non come “alta” secondo l’aggettivo utilizzato nel Piano casa, il che suggerisce di non essere eccessivamente rigorosi sui termini.

Ma l’aspetto che mi pare più interessante è che la legge parla di “dichiarazione” di alta pericolosità, il che sottende evidentemente un accertamento tecnico al quale faccia seguito un provvedimento che formalizza tale stato nell’ambito di un procedimento, come ad esempio quello di approvazione di un Piano stralcio.

Ci si potrebbe, tuttavia, domandare se in presenza di un rischio idraulico tecnicamente evidente, ma non ancora formalmente dichiarato, tale limite all’edificazione possa egualmente operare.

Il quesito può trovare un’adeguata trova risposta in quanto affermato da una recente sentenza del TAR Sardegna (n. 912 del 2011) che ha stabilito come “in tema di rilascio di titoli abilitativi all’edificazione, ove su un’area edificabile sia accertato il rischio di alta pericolosità idraulica, in base ad uno studio scientifico approvato dal Consiglio comunale, il competente organo comunale non potrà rilasciare la concessione edilizia richiesta dal proprietario, ancorché la procedura di variante al PAI, per l’inserimento dell’area fra le zone ad alta pericolosità idraulica, non sia stata conclusa dal competente organo, dovendo applicarsi il principio generale di precauzione che impone di dare assoluta prevalenza, nel bilanciamento degli interessi coinvolti, alla protezione della salute e dell’ambiente, anche nelle ipotesi in cui il pericolo di rischio idraulico sia solo potenziale”.

Sembra, quindi, imporsi un condivisibile approccio sostanzialistico per cui, se un dissesto è in atto, non occorre necessariamente attendere che lo stesso venga consacrato in uno degli strumenti ideati dalla legge, bastando a tal fine una seria valutazione tecnica sulle reali condizioni esistenti.

Come ultima notazione, vorrei soffermarmi sul fatto che, come noto, il Piano casa consente di derogare alle previsioni di PRG, configurando una possibilità di incremento edilizio in deroga alla pianificazione in atto. Verrebbe da chiedersi a questo punto se anche una norma di Piano che impedisse l’edificazione per ragioni legate alla difesa del suolo potrebbe venire derogata.

Sotto tale profilo, la lettera g) dell’art. 9 sembrerebbe lasciare un varco aperto, poiché richiama solo i vincoli introdotti in applicazione del TU ambientale e non anche quelli presenti nella strumentazione urbanistica.

E’ vero che anche in questo caso si potrebbe ricorrere al principio generale di precauzione sopra ricordato per bloccare inopportune iniziative edilizie.

Un utile ausilio, però, viene dalla lettera d) dello stesso art. 9 che sterilizza gli incrementi edilizi del Piano casa nelle zone di inedificabilità assoluta elencate dall’art. 33 della l. n. 47/1985, articolo quest’ultimo che fa riferimento, tra gli altri, anche ai vincoli ambientali e idrogeologici introdotti dagli strumenti urbanistici.

In conclusione, sia che il vincolo derivi dalla pianificazione di settore (Piani di bacino, Piani stralcio ecc.) sia che risulti presente nella strumentazione urbanistica, sia quando pur in assenza di atti e provvedimenti amministrativi vi sia una relazione tecnica che attesti lo stato di pericolo, quando è in gioco la difesa del suolo le facoltà edilizie del Piano casa non possono che rimanere inaccessibili.

* * *

Sempre in argomento va tenuto in considerazione quanto emerge dall’art. 67, comma 6, del D.lgs. n. 152/2006, che introduce delle misure di incentivazione all’esodo nelle zone minacciate da rischio idrogeologico. Nel rinviare alla lettura dell’interessante disposizione, mi limito quivi a rilevare come il Piano casa avrebbe potuto pensare ad incentivare con premi di cubatura e/o superficie utile lo spostamento di abitazioni e edifici produttivi in zone sicure sotto il profilo idrogeologico, invece di limitarsi a vietare qualsiasi ampliamento in presenza delle condizioni stabilite dalla lett. g) del primo comma dell’art. 9.

Invero, è per certi versi incoerente che si premi la ristrutturazione degli edifici anteriori al 1989 con non indifferenti aumenti di cubatura, dando pure la possibilità di modificare il relativo sedime (cfr. art. 3, comma 3 del Piano casa), senza pensare a introdurre misure che possano stimolare a demolire e ricostruire altrove gli edifici ubicati in zone idrogeologicamente critiche.

Faccio notare che un principio del genere era, peraltro, già presente da tempo nella pianificazione urbanistica, che all’art. 7 della L.R. 24/1985 aveva considerato la possibilità di demolizione e ricostruzione in area agricola adiacente dei fabbricati siti nelle zone umide: tale possibilità è ancora transitoriamente possibile (prima del primo PAT e PI) per effetto di quanto disposto dal comma 7 ter dell’art. 48 della L.R. 11/2004.

- E –

E siamo all’ultimo punto, quello sul Giudice competente a decidere sui provvedimenti amministrativi relativi all’assetto idrogeologico. Faccio qui solo un breve richiamo per evidenziare che sussiste al riguardo un consolidato filone giurisprudenziale che attribuisce alla competenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche la giurisdizione in materia di PAI e di Piani di Bacino. Tra le varie sentenze, segnalo TAR Abruzzo, n. 369/2010 e TAR Reggio Calabria, n. 942/2006.

Tuttavia, ricordo che anche il TAR Veneto, con sentenza n. 3622/2004, ha avuto modo di stabilire che “nell’ambito dei provvedimenti in materia di acque pubbliche che vanno impugnati innanzi al tribunale superiore delle acque, sono ricompresi non solo gli atti riferibili a specifiche situazioni o a determinati soggetti, ma altresì quelli di tipo generale e programmatico, nelle parti in cui siano diretti ad influire in via immediata e diretta sul regime delle acque (fattispecie relativa a impugnazione di piano-stralcio per la tutela dal rischio idrogeologico del bacino del fiume Sile e della pianura tra Piave e Livenza)”.

Ora, com’è noto, in base all’art. 143 del t.u. n. 1775/1933 spetta al Tribunale superiore delle acque pubbliche in unico grado pronunciarsi sui ricorsi per incompetenza, per eccesso di potere e per violazione di legge avverso i provvedimenti (definitivi) presi dall’amministrazione in materia di acque pubbliche (art. 143, I co., lett. a) t.u.).

Ora, tale disposizione risulta di agevole applicazione solo quando il provvedimento è assunto da autorità istituzionalmente preposte alla tutela delle acque, ovvero che hanno come propria finalità quella di regolare l’uso delle acque o la previsione di un’opera idraulica, poiché in tal caso la sua attinenza alla materia è facilmente identificabile.

La giurisprudenza ha, però, chiarito che non sempre l’elemento soggettivo (cioè l’atto proveniente da p.a. preposta alla cura delle acque) e l’elemento funzionale (vale a dire l’atto emanato nell’esercizio della funzione di gestione del regime delle acque) esauriscono le ipotesi di radicamento della giurisdizione del TSAP: al Giudice speciale spettano, infatti, anche tutte le altre controversie in cui sino impugnati atti che, pur provenienti da altri organi dell’amministrazione e adottati nell’esercizio di altri poteri, interferiscono sull’attuazione di provvedimenti adottati in materia di acque pubbliche o presentino “su tali usi un’immediata incidenza”, in tal senso, si veda tra le molte Tribunale sup.re acque n. 26/2010.

Ne deriva che, anche a fronte di provvedimenti preordinati alla cura di interessi pubblici diversi, la competenza a decidere sulla loro impugnazione viene attribuita al giudice speciale se l’atto contestato è idoneo ad incidere sul regime delle acque come nel caso, per esempio, di un diniego di concessione edilizia motivato in ragione dell’ubicazione del fabbricato su un canale nel quale confluiscono corsi d’acqua; o ancora, della concessione edilizia negata in ragione di un diniego di nulla osta del Genio Civile fondato su un rischio di esondazione.

Proprio in tal senso, ricordo che si è ritenuto assoggettabile alla giurisdizione del TSAP “il ricorso avverso il diniego di rilascio della concessione per la costruzione di un fabbricato sito nelle adiacenza del fiume Piave, in area da considerare esondabile in quanto assoggettata a rischio di piena del fiume” (Cass. civile, sez. un, 9149/2009).

Più di recente, tale orientamento è stato ulteriormente affinato osservando che l'incidenza diretta di un qualsiasi provvedimento amministrativo sul regime delle acque pubbliche non deve valutarsi in astratto né in senso rigorosamente restrittivo”, di modo che la “ammissibilità della sanatoria di una tettoia realizzata abusivamente ed insistente su un tratto del demanio idrico provinciale” è stata ritenuta assoggettabile al giudizio del Tribunale superiore atteso che “tale realizzazione (…) comportando in concreto la copertura di un tratto dell'alveo di un torrente e la conseguente utilizzazione diretta ed esclusiva di un tratto di spazio del demanio idrico - poneva in rilievo la necessità di scrutinare in via primaria e diretta tutti i profili di legittimità (di natura essenzialmente tecnica) correlati agli effetti provocati da tale opera sul normale regime delle acque e del demanio in questione” (Cons. Stato, Sez. V, n. 7102/2010).

Come si intuisce, quindi, i confini della giurisdizione del TSAP risultano talvolta incerti, e ciò anche in relazione a materie quali la difesa del suolo ove l’incidenza immediata e diretta col regime delle acque viene giocoforza spesse volte in rilievo.

Ciò richiede di prestare sempre molta attenzione quando ci si accinge a introdurre una qualche azione di tutela, per valutare se si sia in presenza di un provvedimento che possa incidere in maniera immediata e diretta sul regime delle acque, non facendosi ingannare dal fatto che non sia stato emanato dal un Autorità con specifici compiti in questa materia.

- avv. Stefano Canal -

Ultimo aggiornamento ( sabato 10 marzo 2012 )
 
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