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Un'occasione perduta? pianificazione strutturale, operativa e attuativa a otto anni dalla L.R. 11. PDF Stampa E-mail
sabato 10 marzo 2012
di Silvano Ciscato.


Riveste a mio avviso particolare interesse il tema, di natura metodologica, sulla capienza degli atti (PAT e PI) che compongono il PRC.



Idealmente, il modello normativo mirava a formare atti snelli, vorrei dire maneggevoli. Siffatta concezione mirava ad ovviare all’elefantiasi che era andata via via affliggendo i piani regolatori generali, divenuti, di variante in variante, centoni farciti delle più disparate e disorganiche indicazioni, anche di scala puntiforme. Donde, di incerta, se non ardua interpretazione, e gravati da un iter formativo farraginoso tale da renderli sovente già superati al momento stesso della vigenza.



Nel modello coniato dalla l. reg. 11/2004, sulla base del modello coniato INU 1995 (ma, se vogliamo, concepito da Giovanni Astengo nel suo studio per il P.R.G. di Assisi, presentato nel 1957) e della legislazione emiliana del 2000, il PAT doveva esprimere contenuti ricognitivi di invarianti e fragilità, e progettualità di scala sostanzialmente territoriale. Esso doveva tracciare una cornice, entro la quale toccava al PI disegnare le linee fondamentali dello sviluppo urbanistico quinquennale della città privata e della città pubblica, definendo la zone funzionali, gli indici, le u.m.i., il coordinamento con il piano triennale delle oo.pp.



In sostanza, in questo modello astratto, il PI localizza gli interventi e ne detta le regole generali. La relativa progettazione urbanistica è affidata alla pianificazione attuativa.



Il modello di legge, dunque, è tricipite: il processo di rinnovamento e sviluppo della città si dipana tra concezione (PAT), localizzazione (PI) ed attuazione (PUA, cui l’art. 19 della l. reg. 11/2004 affida “l’organizzazione urbanistica, infrastrutturale ed architettonica di un insediamento”).



La corrente prassi amministrativa, tuttavia, registra qualche distorsione applicativa.



Si assiste ad una dilatazione -che ricalca la predetta elefantiasi pianificatoria cui si intendeva ovviare- dei contenuti definitori di PAT e di PI.



Al Piano strutturale vengono riportati (sovente allo scopo di perpetuarli, sottraendoli alla decadenza quinquennale) elementi prescrittivi di attinenza squisitamente operativa.



Il piano operativo, per parte sua, non si limita a localizzare le insulae, ma si grava di indicazioni propriamente progettuali.



Significativamente, ad otto anni dalla vigenza della legge il sistema piano strutturale - piano operativo è lungi dall’essere attuato, sul territorio veneto.



L’errore, dunque, pare ripetersi.



Una chiave risolutiva potrebbe (dovrebbe) risiedere nella riquotazione della pianificazione attuativa, alla quale dovrebbe essere riservato il disegno delle textures urbane[1].



E tuttavia recenti innovazioni legislative paiono indurre conclusioni opposte.


Dallo scorso 12 settembre ha trovato piena applicazione nelle Regioni a statuto ordinario la disposizione del comma 13 dell’art. 5 della L. 106/2011 di conversione del Decreto n. 70/2011 (c.d. decreto sviluppo) “13. Nelle Regioni a statuto ordinario, oltre a quanto previsto nei commi precedenti, decorso il termine di sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, e sino all'entrata in vigore della normativa regionale, si applicano, altresì, le seguenti disposizioni:(…) b) i piani attuativi, come denominati dalla legislazione regionale, conformi allo strumento urbanistico generale vigente, sono approvati dalla giunta comunale”.


La lettera b) della disposizione, dunque, istituisce la competenza giuntale per l’approvazione dei piani attuativi[2].


Parrebbe che il legislatore nazionale voglia così contrastare un fenomeno endemico: la dilatazione dei tempi di formazione dei piani attuativi.


Ora, nell’esperienza veneta è incontestabile che detta dilatazione rappresenta la regola. Il rispetto dei tempi scanditi dall’art. 20 della l. reg. 11/04, l’eccezione.


Tuttavia, pare che il legislatore regionale abbia colto l’impulso di fonte nazionale con forse eccessivo zelo.


L’art. 11 della L.R. 13/11 dispone: “1. Ai commi 1 e 4 dell’articolo 20 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 le parole “trenta giorni” sono sostituite con le parole “settantacinque giorni”. 2. Il comma 2 dell’articolo 20 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 è abrogato. 3. Dopo il comma 4 dell’articolo 20 della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 è aggiunto il seguente comma: “4 bis. I termini previsti dai commi 1, 3 e 4 sono perentori; qualora decorrano inutilmente i termini di cui ai commi 1 e 4 il piano si intende adottato o approvato e le opposizioni e osservazioni eventualmente presentate, respinte.”


Ossia: per i PUA di iniziativa privata il silenzio assenso si applica tanto per l’adozione che per l’approvazione.


Non mi inoltro sul tema della costituzionalità della norma.


Prescindo, altresì, da ogni considerazione sull’eversione che tale novella [“(…) qualora decorrano inutilmente i termini il piano si intende (…) approvato e le opposizioni e osservazioni (…) respinte”] apporta al modello dialettico-partecipativo di lunghissima, quanto all’epoca innovativa, risalenza, sul quale si incentra(va) la pianificazione attuativa. Nell’ambito del quale l’approvazione consiliare costituiva la sede naturale ed imprescindibile del dibattito pubblico sugli apporti partecipativi dei cives.


Mi limito, qui, ad osservare che l’applicazione, al massimo grado, del modello semplificatorio non può che alludere a (rectius implicare) un’attività di natura vincolata.


Natura che appare incompatibile con un modello legislativo che affida al PUA l’organizzazione urbanistica, infrastrutturale ed architettonica di un insediamento, e, di riverbero, deferisce alla sua sede approvativa l’espressione di una valutazione sul merito di scelte incisive sul futuro assetto dell’urbs.


La ponderazione sul PUA, oltretutto, non deve limitarsi ad un giudizio sull’intrinseco, ossia sulle soluzioni adottate entro l’ambito, ma deve anche affrontare il tema dell’estrinseco, ossia della relazione tra il progetto e l’intorno (sulla funzione del piano urbanistico attuativo quale strumento necessario non solo per garantire l’urbanizzazione dell’area, ma anche per assicurare la verifica di compatibilità degli interventi col valore storico e culturale dell’area circostante, cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 7490/2009).


Si innesta, qui, un ulteriore profilo problematico: la Valutazione Ambientale Strategica. L’art. 5 del succitato D.L. 70/2001[3], dispone: “(…) Lo strumento attuativo di piani urbanistici già sottoposti a valutazione ambientale strategica non è sottoposto a valutazione ambientale strategica né a verifica di assoggettabilità qualora non comporti variante e lo strumento sovraordinato in sede di valutazione ambientale strategica definisca l’assetto localizzativo delle nuove previsioni e delle dotazioni territoriali, gli indici di edificabilità, gli usi ammessi e i contenuti planivolumetrici, tipologici e costruttivi degli interventi, dettando i limiti e le condizioni di sostenibilità ambientale delle trasformazioni previste. Nei casi in cui lo strumento attuativo di piani urbanistici comporti variante allo strumento sovraordinato, la valutazione ambientale strategica e la verifica di assoggettabilità sono comunque limitate agli aspetti che non sono stati oggetto di valutazione sui piani sovraordinati. I procedimenti amministrativi di valutazione ambientale strategica e di verifica di assoggettabilità sono ricompresi nel procedimento di adozione e di approvazione del piano urbanistico o di loro varianti non rientranti nelle fattispecie di cui al presente comma…”.


Ergo: il PUA che, coerentemente con la funzione assegnatagli dalla legge[4], definisca l’assetto localizzativo delle nuove previsioni e delle dotazioni territoriali, (…) i contenuti planivolumetrici, tipologici e costruttivi degli interventi, va sottoposto a VAS.


Va da sé che funzioni siffatte non siano deferibili ad un organo essenzialmente gestionale/propositivo, qual è la giunta, e tantomeno siano comprimibili entro un modulo a formazione silente.


Donde, delle due l’una.


O si dilata il Piano operativo sino ad includervi la definizione dell’organizzazione urbanistica, infrastrutturale ed architettonica degli insediamenti programmati, così da giustificare la dequotazione dell’attività approvativa dei PUA in attività vincolata.


O si ritorna al modello formativo tradizionale dei piani attuativi, eventualmente studiando più incisivi automatismi acceleratori.


La prima soluzione, pervero, appare antisistemica, in primo luogo per considerazioni che si riverberano sulla gerarchizzazione degli interessi che presiede al sistema pianificatorio[5].


Al riguardo, sorge una considerazione, forse una semplice congettura, che al livello assiologico risale muovendo dal dato empirico[6].


Eccola: dati i limiti delle strutture tecniche degli enti comunali, appare meramente astratta, se non irrealistica, l’ipotesi di una pianificazione operativa pubblica spinta sino a determinare i contenuti fondamentali del livello attuativo. Pertanto, l’inserzione del progetto (il livello attuativo) nel piano (il livello operativo) imporrebbe un diffuso ricorso all’apporto partecipativo privato (sulla stregua dell’art. 6 l. reg. 11/2004) nella pianificazione operativa.


Conseguenza rilevante, tra altre: le trasformazioni si limiterebbero agli ambiti di proprietà unitaria, o quantomeno appartenenti a soggetti coesi dall’obiettivo pianificatorio, e pertanto disposti a sostenere gli oneri progettuali. Effetto, assai probabile: l’impossibilità, per l’Amministrazione, di coniare una trasformazione euritmica del territorio.


Ciò darebbe luogo ad un sostanziale arretramento degli interessi (pubblici) della pianificazione rispetto a quelli (privati) della proprietà.


Che è quanto un complesso storico di disposizioni incisive sulla pianificazione attuativa privata (si pensi alla lottizzazione obbligatoria, al comparto edificatorio, alla stessa disposizione dell’art. 18 comma 7, in relazione all’art. 33, della l. reg. 11/04) mira ad evitare, dettando norme improntate ad affermare la trasformazione dell’urbs malgrado, e anche contro, il dissenso dei proprietari, senza ingenerare oneri progettuali/attuativi a carico della collettività.


*


Pertanto, parrebbe opportuno suggerire una rimeditazione dell’art. 11 della L.R. 13/11.


Per salvaguardarne le finalità acceleratorie, senza gravare la pianificazione operativa di un livello di dettaglio tale da consentire l’applicazione del silenzio-assenso, parrebbe opportuno prevedere, in luogo dell’ipotesi di adozione ed approvazione silenti, un automatismo che allo spirare del termine deferisca automaticamente ed irreversibilmente la formazione dello strumento attuativo al potere sostitutivo (e non supplettivo) regionale[7].








[1] Il PRG di Assisi, nell’idea di G. Astengo, si dedicava a tematismi programmatori e conteneva indicazioni di carattere diremmo oggi strutturale, delegando l’operatività a due piani particolareggiati.


[2] Sorvolo sul contrasto con l’art. 42, comma 2, lett. b) del T.U. sugli Enti Locali (che prevede la competenza consiliare, e non risulta modificato né espressamente abrogato dal decreto sviluppo). Tant’è che da parte di alcuni commentatori, di fronte a codesta aporia, si è sostenuto che il Decreto Sviluppo abbia inteso mantenere in capo al Consiglio comunale la competenza all’adozione dei piani attuativi, riservando alla Giunta l’approvazione.



[3] Convertito in legge 12/07/2011, n. 106 (in G.U. n. 160 del 12 luglio 2011) in vigore dal 13 luglio 2011.


[4] Cfr. il ridetto art. 19 della l. reg. 11/2004 che assegna al PUA l’organizzazione urbanistica, infrastrutturale ed architettonica di un insediamento.


[5] Non tanto, dunque, per considerazioni inerenti alla gerarchizzazione dei Piani, ormai forse inattuale.


[6] Sotto un profilo sistematico generale va detto che l’art. 22, comma 3, lett. c), del T.U. approvato con d.P.R. 380/2001, contempla l’ipotesi di interventi di nuova costruzione in diretta esecuzione di strumenti urbanistici generali recanti precise disposizioni plano-volumetriche.

Ossia ammette la possibilità che lo strumento generale discenda sino alla soglia della scala edilizia. Donde, a livello principiale, a fortiori esso potrà contenere disposizioni tali da consentire l’applicazione del silenzio-assenso in sede di formazione dei PUA.

La novella veneta, pertanto, in astratto non contrasta con il T.U. edilizio nazionale. Paradossalmente, come si è veduto dianzi, il contrasto appare più accentuato con il modello concettuale che informa la l. reg. 11/04.


[7] Dando per acquisita l’estinzione delle Province.
Ultimo aggiornamento ( sabato 10 marzo 2012 )
 
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