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La legge “Abolizione delle Province”: un nuovo assetto del territorio PDF Stampa E-mail
giovedì 22 maggio 2014

di

IVONE CACCIAVILLANI

 

La legge “Abolizione delle Province”: un nuovo assetto del territorio

 

La legge 7 aprile 2014 n. 56 (impropriamente battezzata) “abolizione delle Province” ha creato scenari nuovi nell’assetto del “potere locale”, già notevolmente inciso dalla riforma del titolo V della Costituzione, anche se quella pur radicale innovazione non è stata adeguatamente assimilata in dottrina e (conseguentemente) nella giurisprudenza.

 

 

 

La nuova territorialità

 

È proprio partendo dalla riforma del 2001 che occorre partire per cogliere la portata delle innovazioni apportate dalla recente legge della scorso aprile. La più radicale innovazione di quella riforma costituzionale è la nuova nozione di territorialità emergente della riformulazione dell’art. 114, coordinata col principio di sussidiarietà dell’art. 118. 

S’è passati dall’originaria formulazione dell’art. 114, in cui Regioni, Province e Comuni (elencati nell’ordine) erano ripartizioni della Repubblica, all’attuale, in cui Comuni, Province, Città Metropolitane, Regioni e Stato sono componenti, parte costitutiva, della Repubblica, con l’assoluta priorità del Comune stabilita in linea generale e di principio dal primo comma dell’art. 118, secondo cui “le funzione amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città Metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza”. Dove rilevante è non solo la nuova gerarchia (comprensiva anche dello Stato, in precedenza comunemente considerato sinonimo di Repubblica), ma anche -e prioritariamente- l’ambito di attribuzioni, regolato dal medesimo art. 118 e fondato sul principio di sussidiarietà-adeguatezza.

Carattere comune di tutte le nuove componenti -ed anzi il tratto qualificante e costitutivo della loro stessa identità istituzionale- è la rispettiva territorialità, che nell’assetto del 2001 rappresenta un limite assoluto della competenza, intesa come titolarità della funzione e quindi possibilità-legittimazione al suo esercizio. Se ne deduce un primo rilevante elemento sistematico: per l’ente territoriale il confine “geografico” è limite funzionale tassativo e invalicabile. Esso costituisce sul piano territoriale (ch’è poi il tratto qualificante delle nuove componenti) quella ”sfera di competenza”, che rappresenta il primo dei tre requisiti posti dall’art. 97.1 della Costituzione come traccia vincolante per l’organizzazione “legale” della P. A..

Sia per la priorità “gerarchica” dell’art. 114 che per il criterio d’impostazione dell’art. 118, per il riparto/coordinamento delle competenze si deve “partire” dal Comune regolandole secondo il criterio della sussidiarietà, il cui primo elemento è l’adeguatezza territoriale.

Quando -sia oggettivamente, sia su apprezzamento discrezionale dell’Ente territoriale di per sé competente- la funzione da esercitare spieghi effetti anche “oltre” il rispettivo ambito territoriale, si determina ipso jure, per effetto dell’assetto costituzionale dato alla Repubblica, uno spostamento “all’in su” della competenza funzionale, che qui, con neologismo fortemente innovativo ma singolarmente espressivo, si vuol definire sublimazione della funzione (titolarità della competenza), nel senso che -per quanto attiene alla territorialità- quando una funzione (del cui esercizio si tratta ed a fortiori quando se ne controverte) deborda dal confine geografico/territoriale dell’Ente, non si ha più una promiscuità/cumulo di funzioni esercitabile in forme consortili, ma scatta la competenza dell’Ente “superiore”, sempre nella gerarchia del nuovo art. 114. Dov’è l’adeguatezza territoriale che condiziona la competenza (titolarità della funzione), essendo privilegiata la finalità di servizio del cittadino sovrano (art. 98) sull’esercizio del potere dell’Ente.   

Quale che sia il riparto normale o istituzionale delle funzioni tra le varie nuove componenti della Repubblica secondo i criteri di attribuzione ai sensi e secondo i criteri dell’art. 97 Cost., l’esercizio in concreto della funzione (competenza) resta condizionato dall’ambito territoriale in cui esso spiega i suoi effetti. Con la conseguenza che, ove l’esercizio della funzione coinvolga e/o tocchi -ripetesi sia oggettivamente che per apprezzamento discrezionale dell’Ente territoriale titolare- comunque interessi giuridicamente apprezzabili ma estendentisi oltre il suo confine geografico, cessa la sua competenza funzionale e scatta la competenza dell’ente ”superiore” attraverso la sublimazione della competenza.

Nel nuovo assetto costituzionale, il confine territoriale diventa limite di competenza funzionale e quindi di legittimazione all’esercizio della funzione: la territorialità (la delimitazione confinaria o geografica) è limite di funzione/competenza, mentre e per effetto della sussidiarietà (adeguatezza territoriale) l’ultra- e/o l’extra- territorialità fa scattare la competenza ”superiore” (sempre nella gerarchia del 114). Superfluo rilevare la radicalità della riforma, che sovverte funditus criteri e prassi consolidate.

Peraltro la segmentazione territoriale della funzione, derivante dall’art. 114, viene radicalmente attenuata dal principio della sussidiarietà dell’art. 118, che, attraverso il limite dell’adeguatezza, traccia ex novo il rapporto funzionale tra gli Enti territoriali (le nuove componenti della Repubblica), elevando al rango inderogabile ed invalicabile il limite territoriale, attraverso appunto la sublimazione della competenza nella nuova gerarchia dell’art. 114. Ora, nel nuovo assetto costituzionale, la “sfera di competenza” territoriale sottrae la competenza funzionale all’Ente “inadeguato”, attribuendola a quello “superiore” ritenuto territorialmente adeguato.

Questo meccanismo “sublimante” non solo non ha funzionato, ma sostanzialmente non è stato nemmeno colto, senza peraltro eccessivo ripianto, data la sua macchinosità. Invero l’applicazione più frequente di tali principi si sarebbe avuta nel rapporto Comune – Provincia, in un momento storico in cui quest’ultima era già in grave crisi istituzionale, oggetto già allora  di insistenti programmi abrogazionisti, ora giunti a (forse fortunosa) attuazione.

Nella nuova legge l’automatismo sublimante automaticamente traslativo della funzione fuoriuscente dal confine territoriale della componente “inferiore”, è stato sostituito dalla determinazione, per atto valutativo discrezionale, di ambiti territoriali ottimali per ciascuna funzione di competenza. È -si può ben dire- il trionfo dell’intuizione-auspicio d’un grande Maestro, Feliciano Benvenuti, che già dagli anni sessanta dello scorso secolo sognava il potere locale organizzato per ambiti di funzioni e non su confini territoriali storici.

I tre settori d’intervento sono la Città Metropolitana (C.M.), la Provincia e il Comune, anche se nella rubrica ufficiale la legge si autoqualifica “abolizione delle Provincie”. Sostanzialmente è un radicale riordino del potere locale in supplenza della latitanza delle Regioni, tutte ancorate al mantenimento d’uno status quo ben risalente ed assolutamente inadeguato alle crescenti esigenze del vivere civile, per non dire decisamente obsoleto.   

 

 

L’equivoco della “Città Metropolitana”    

                       

L’istituzione della C.M. è senza dubbio l’innovazione (si fa per dire, perché si tratta d’istituto ben risalente, rimasto per decenni lettera morta, mero enunciato verbale(1)) più eclatante, forse destinata ad entrare in qualche vigore ad una condizione assai strana per un’innovazione strutturale: che diventi cosa diversa da quella delineata dalla legge istitutiva.

A cominciare dalla sua stessa rilevanza sistematica: sono otto realtà locali (Roma ovviamente esclusa) accomunate solo dal fatto di essere capitali delle maggiori Regioni senz’alcun elemento oggettivamente omogeneizzante; con una prima contraddizione in termini, relativa alla loro stessa individuazione sia strutturale che funzionale, fatta coincidere con la precedente Provincia. Quella Provincia che, assieme alle altre cento della Penisola, dovrebbe essere soppressa come ente inutile e che -almeno per taluna di essa, si pensi a Venezia, un’esile striscia di territorio cha va da Cavarzere, a sud, ch’è pieno Polesine, a Portogruaro a Nord, ch’è a sua volta Friuli, dove si parla “furlan”- era veramente ente inutile. Con altra contraddizione funzionale: la legge si ripropone di favorire in vari modi (se ne tratterà più oltre) la concentrazione di Comuni sulla base di scelte locali volontariali, mentre per le otto C.M. provvede autoritativamente alla concentrazione (non la si potrebbe qualificare diversamente) dei Comuni della precedente Provincia in un unico megacomune, che minaccia di diventare una specie di anacronistico ed anomalo ircocervo.

            Un merito -al di là degli ambiti territoriali interessati, ma sono otto in tutto- alla loro istituzione va riconosciuto ed è il già rilevato passaggio dall’organizzazione del potere locale per ambiti-contenitori fissi ed onnivalenti, delimitanti tutte le funzioni “locali” entro uno stesso confine geografico, alla delimitazione delle funzioni per bacini territoriali omogenei individuati per ciascuna funzione, ch’è l’essenza della visione benvenutiana. Sia la C. M. (comma 11/b: “organizzazione ed esercizio delle funzioni metropolitane e comunali”) sia la nuova Provincia (comma 89: “individuazione dell’ambito territoriale ottimale di esercizio per ciascuna funzione”) devono organizzare la loro operatività per bacini organici dimensionati sulle esigenze di funzionalità del singolo servizio. Con seri problemi sia istituzionali, in ordine alla democraticità della relativa gestione, sia operativi, in ordine alla sua effettività ed efficacia.     

            Tutte le nuove strutture di governo sono costituite con elezioni di secondo grado, da parte e ad opera degli eletti direttamente dal popolo, limitandosi la nuova legge (sulla scia peraltro d’una prassi assai risalente e diffusa, sulla quale s’è sviluppato un contenzioso assai vivace e variegato) a prevedere che negli organi d’amministrazione delle nuove istituzioni “locali” siano ”rappresentate le minoranze”: quali e come individuate e valutate? La scomparsa dei partiti tradizionali, strutturati sulla base di ideologie molto caratterizzate, ha portato ad una grande frammentazione di posizioni, spesso costruite su personalismi dominanti e sempre molto flessibili ed cangianti. Lo stesso fenomeno genera spesso avventurismi, che possono portare a serie compromissioni dell’efficienza ed efficacia dei servizi.

Una disposizione “civetta” -nel seno che lascia intendere più di quanto dice- è il comma 6, che consente l’accorpamento alla CM “di legge” di “comuni capoluogo delle provincie limitrofe”, introducendo la possibilità di creare -attraverso la determinazione “dal basso”- ambiti di governo all’interno della Regione (non pare che la possibilità di accorpamento in CM sia estendile anche a capoluoghi di Province di Regioni diverse), supplendo eventuali lacune o latitanze organizzative delle Regioni. In realtà -e non pare rilievo malevolo- l’intervento di riordino dell’intero potere locale nel suo complesso è nella sostanza la sconfessione dell’inerzia delle Regioni rispetto a quella che avrebbe dovuto essere la loro funzione primaria di dare al proprio territorio un assetto “locale” consono ai tratti caratteristici del relativo assetto (e si pensa che poche Nazioni, nell’intero continente europeo, presentino al loro interno altrettanta differenziazione di assetti sia territoriali che di tradizioni).

Non può essere sottovalutato il totale fallimento della Regione in questa che s’aveva ragione di ritenere la sua principale funzione di rompere il centralismo sabaudo consacrato nello Statuto Albertino del 1848.

 

 

Il nuovo Comune

 

Perplessità non minori generano le disposizioni relative al nuovo assetto del Comune.

Tutte le disposizioni (commi 104-151) sono finalizzate a favorire il coordinamento delle loro funzione da attuarsi attraverso tre istituti per vero non organicamente disciplinati o anche solo coordinati: l’unione, la fusione e l’incorporazione di Comuni. La prima -l’unione- lascia integra l’individualità del singolo Ente, limitandosi a coordinarne talune delle rispettive funzioni; la seconda -fusione- dà luogo ad un’entità giuridica nuova con cessazione delle precedenti; la terza, l’incorporazione, è ben chiara, ma totalmente lontana da ogni realizzazione -non ne consta alcun precedente- probabilmente destinata a “restare sulla carta”, data la non ingiustificata gelosia di campanile, così diffusa e radicata.

Cercando d’individuare un filo conduttore capace di fare sistema nel coacervo -per vero assai poco organicamente ordinato- delle disposizioni disseminate nei 151 commi (qualche cenno sulla tecnica legislativa in conclusione), è proprio nell’assetto del “nuovo Comune” che va individuato l’oggetto principale dell’importante intervento legislativo; proprio di “nuovo Comune” s’ha da parlare.

  Le funzioni della nuova Provincia sono nella sostanza state sottratte ai Comuni, che n’avevano la titolarità senz’avere la possibilità di esercitarle con adeguatezza: funzioni senza servizi che la legge vorrebbe trasformare in servizi effettivi, eliminando quella giungla di strutture di governo (le famigerate municipalizzate), rivelatesi organi del peggior malgoverno. Ecco la centralità del comma 85, che -con riferimento allo specifico del presente intervento- pone al primo posto la “pianificazione territoriale provinciale di coordinamento, nonché la tutela e la valorizzazione dell’ambiente”. La disposizione va coordinata con quella del comma 133, che per i nuovi Comuni risultanti dalla ricomposizione dei precedenti, dispone che entro tre anni devono prevedere ”l’omogeneizzazione degli ambiti territoriali ottimali di gestione e la realizzazione della partecipazione a consorzi, aziende e società pubbliche di gestione”. In sede locale (comunale nel nuovo assetto) la funzione della gestione del territorio è limitata a dare corretta attuazione alle scelte di pianificazione (pare da sottolineare la radicale differenza tra pianificazione e programmazione: questa si limita a fissare gli obiettivi e i criteri della pianificazione) spettanti alla nuova Provincia.

Con due precisazioni di carattere sistematico: la funzione diventata solo provinciale della pianificazione territoriale vale ovviamente per tutti i Comuni, sia “nuovi” (nel senso di oggetto di qualche intervento di ricomposizione) che “vecchi”; la sottrazione al Comune della funzione della pianificazione territoriale non può che essere ritenuta conseguenza della constatazione (ohimè non infondata) del completo fallimento della pianificazione territoriale a livello comunale: dopo tanto scempio del territorio è ben tempo di riforme strutturali dell’assetto (titolarità) della funzione: una vera “sublimazione di sistema”.

   

 

 

La struttura della legge

 

La legge presente aspetti di vera barbarie giuridica che, dopo i ripetuti exploit delle varie “finanziarie” degli anni scorsi s’aveva ragione di non veder ripetuti. Torniamo ai secoli bui anteriori alla codificazione ottocentesca, che si fece obbligo di seguire la composizione sistematica delle leggi, suddivise in titoli, capi, sezioni, articoli e commi; giusto e solo per dare ordine sistematico alle disposizioni, facilitandone il reperimento e l’uso. Se nelle “finanziarie” degli anni scorsi -tipiche leggi omnibus destinate a coprire un’infinità di temi assolutamente eterogenei- l’assemblaggio era anche comprensibile, nella legge 56 quei 151 commi riguardano tre temi ben identificati, addirittura elencati in rubrica: C.M., Provincie e Comuni; di tal che la suddivisione in titoli era ovvia e il riparto delle disposizioni per articoli facilitata dalla specificità dei temi e dei gruppi di disposizioni. Un vera barbarie giuridica!

Anche in relazione alla sciatteria dell’affastellamento disposizioni di natura e ruolo sostanziale d’innovazione, frammiste a disposizioncelle di metodologia applicativa, materia al più di regolamento d’esecuzione se non di circolare operativa: c. 75 “le schede di votazione sono fornite a cura dell’ufficio elettorale” (e da chi mai se no!?).

C’è un banco di prova dell’efficacia delle innovazioni così introdotte rappresentato dalla tempestività e coerenza delle leggi regionali previste a vario proposito: se usciranno e se saranno in sintonia con linee dell’importante riforma.  

 

 

 

1) Il primo ingresso nell’ordinamento della Città Metropolitana ebbe luogo con l’art. 17 della legge 8 giugno 1990 n. 142; la Regione Veneto prese sul serio l’iniziativa e con legge regionale 12 agosto 1993 n. 36 “delimitò” l’ambito della Città Metropolitana di Venezia limitata ai quattro Comuni dell’immediata gronda lagunare e riservando a successiva delibera della Giunta Regionale l’attivazione delle relative funzioni; la delibera della Giunta non seguì mai per cui l’istituzione restò lettera morta.

 

 

 

Il Pianeta Montagna

 

 

Nell’attuale assetto costituzionale seguito dalla riforma del Titolo V della Costituzione,  il principio posto dal secondo comma dell’art. 44, secondo cui “la legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane” acquista valore e ruolo nuovi, notevolmente diversi dal precedente, venendo ad incidere direttamente sull’assetto legale della montagna risultante dall’ultima legge statale organica di materia, 31 gennaio 1994 n. 97, “nuove disposizioni per le zone montane”. Si tratta di disposizione “rinforzata”, perché il secondo comma dell’art. 1 “le sue disposizioni costituiscono principi fondamentali ai sensi dell’art. 117 della Costituzione”, restando alle Regioni di “provvedere alle finalità della presente legge secondo la disposizioni dei rispettivi statuti”.

Ora, nella nuova formulazione dell’art. 117 Cost., rientrando la “materia montagna” nella competenza legislativa concorrente della Regione, il limite dei principi fondamentali pre-stabiliti dalla legge dello Stato s’è notevolmente attenuato con notevole espansione della possibilità della Regione di disciplinare autonomamente la “sua” montagna, anche (moderatamente) discostandosi dalla disciplina statale.

Resta -e il rilievo dà ragione della titolazione- che la Montagna costituisce un ecosistema “a sé” (donde il maiuscolo), in cui la legislazione genericamente riferita al territorio o non s’applica affatto o s’applica con tali limitazioni e correttivi da modificarne notevolmente la stessa vincolatività.

 

 

L’assetto storico della Montagna

 

Il tema della specialità delle aree montane non è certo di ieri.

Dagli anni immediatamente precedenti la prima Grande Guerra è in atto una lenta e non di rado contraddittoria elaborazione d’uno statuto speciale per la Montagna; un sintomo a sua volta univoco della convinzione sempre più chiaramente maturata della necessità di darne un regime organico e globale.

Il primo intervento d'avvio d'una disciplina "dinamica" delle aree montane, diversa da quella delle "altre" aree e speciale in ragione della specialità dei problemi che presenta, si ha col regio decreto 21 marzo 1912 n. 442, che, raccogliendo in unico testo precedenti disposizioni disseminate in vari atti legislativi, consolida il concetto di sistemazione organica delle aree ("bacini") montane, ponendone l'esecuzione a carico dello Stato come funzione di interesse generale per la collettività nazionale. Subito successiva è la legge 2 giugno 1912 n. 277 (nota come "legge Lazzati"), il cui più significativo apporto fu l'istituzione della Direzione Generale delle Foreste presso il Ministero dell'Agricoltura, che avviò la formazione di esperienze tecnico-burocratiche per la Montagna e la formazione di una cultura della Montagna.

Il frutto più importante di tale intervento fu il R.D. 30 dicembre 1923 n. 3267, comunemente noto come "legge forestale" o (dal nome del suo propugnatore) "legge Serpieri", tuttora il più qualificato intervento legislativo nella materia, un monumento insuperato (quanto purtroppo dimenticato) di saggezza nell'amministrazione della Montagna (1). Di quel provvedimento vanno ricordati il richiamo dell'importanza per l'intera economia nazionale della difesa del territorio montano e l'assegnazione ai Comuni ed ai consorzi tra Comuni, Comunioni familiari e privati, della funzione di salvaguardia e valorizzazione dei territori montani. Venne introdotto uno specifico strumento di programmazione, il "piano economico", assegnato alla primaria competenza dei Comuni.

La specialità della Montagna troverà poi sanzione a livello costituzionale nel citato secondo comma dell'articolo 44 della Costituzione.

Una prima applicazione del principio costituzionale s'è avuto con la legge 25 luglio 1952 n. 1952 n. 991 (la c.d. "legge Fanfani", dal nome del proponente), che, tra le numerose innovazioni, introduce la nozione di "montagna legale", dandone (all'art. 1) la definizione legale identificata de jure nei territori di altitudine superiore ai 600 metri sul mare. Essa sottolinea altresì l'aspetto "comunitario" e quasi cooperativistico della bonifica montana, il soggetto principale della cui azione diventa (o meglio avrebbe dovuto diventare) il "consorzio di bonifica montana".

Col decreto presidenziale 10 giugno 1955 n. 987 ("decentramento dei servizi del Ministero dell'Agricoltura e Foreste") compaiono sulla scena organizzativa delle aree montane i "consigli di Valle" (gli antenati della "comunità montana" della legge del 1971), mentre con la legge 17 aprile 1957 n. 278 viene prevista la ricostituzione dei "comitati di amministrazione dei beni frazionali di proprietà collettiva".

L'ultimo intervento organico nella materia, prima dell'avvento delle Regioni (1970-1972) e del nuovo statuto dell'autonomia degli Enti Locali del 1990, rappresentato dalla legge 30 dicembre 1971 n. 1102, frutto di lunga e (da parte di taluni operatori specie della Montagna veneta) appassionata preparazione sia tecnica che culturale. Di essa va posta in particolare rilievo la definitiva e organica disciplina della Comunità Montana, concepita come fondamentale stramento di tutela e di sviluppo della Montagna attraverso uno strumento organico di programmazione "globale" (il piano generale di sviluppo), destinato ad attuare l'autonomia nell'organizzazione di tutte le funzioni relative alla Montagna. Ma, purtroppo, l'istituto rimase per larga parte lettera morta (principalmente per colpa proprio della gente della Montagna).

Del 1990 è la ricordata legge n. 142, di radicale riforma delle autonomie locali, che anche per la Montagna introduce istituti e formule organizzative nuove, incentrate sulla loro rifunzionalizzazione, ad esse gli articoli 28 e 29 attribuiscono (entro il rispettivo ambito territoriale) le funzioni proprie della Provincia.

Da ultimo e con dubbia legittimità costituzionale data la palese invasività della competenza legislativa regionale di varie disposizioni, intervenne la legge statale 31 gennaio 1994 n. 97, "nuove disposizioni per le zone montane", che ha avuto una sorte strana, legata ad una forte ideologia innovativa malata di astrattismo senza adeguato ancoraggio alla realtà. Invero, trattare in modo uniforme per l’intero territorio nazionale le aree montane, così diverse per la stessa struttura orografica, oltre che per cultura, tradizioni e modi di vivere radicalmente diverse, ha portato a delineare un modulo astratto, inadatto a regolare tutte realtà che si riprometteva di disciplinare. Fu l’ultima legge “statale” grondante di buoni proponimenti, ma anacronistica nel suo astrattismo. Siamo a metà degli anni Novanta, quando le Regioni, anche indipendentemente dalla riforma del Titolo V, cominciavano a sgranchirsi e ad operare (2). Non che col loro avvento l’andamento sia migliorato, ma la consonanza tra l’acerbità delle Regioni e lo smarrimento politico conseguente alla crisi della prima Repubblica hanno indotto un’involuzione che ha portato alla gravissima recessione della Montagna italiana (e non solo purtroppo!).

Ne è tipica rappresentazione la sorte della Comunità Montana, la cui valorizzazione funzionale era il filo conduttore della legge del 1994: ad un subitaneo e del tutto anomalo proliferare si sono succeduti fitti interventi -quali per atto amministrativo quali per legge- di riassetto se non decisamente abrogativi (Sardegna 2007; Puglia e Piemonte 2009; Liguria 2011); mentre in altre Regioni sono state progressivamente svuotate di funzioni, ridotte a larve burocratiche; tipico in tal senso il Veneto, la cui legge organica del 1992 rimasta insensibile alla legge statale del 1994, ne ha fatto dei contenitori vuoti.

 

 

Ecosistema ed aree marginali

 

Volendo tracciare delle linee organiche d’intervento per l’effettivo sviluppo delle aree montane, nell’attuale momento profondamente evolutivo degli ordinamenti (europeo, statale e regionale), senza incorrere nell’ecumenismo statalista (pretesa imporre all’intero territorio nazionale lo stesso paradigma organizzativo e funzionale) della legge statale sulla Montagna del 1994) -ed anche per rendere ragione della limitazione del titolo- l’indagine si restringe  all’ambito territoriale della Montagna alpina (3) in genere ed a quella del Nordest in specie; sostanzialmente alla Montagna veneta storica, quando i confini dello Stato da Terra della Serenissima si attestavano sull’Adda, comprendendo vasta parte della Lombardia (detta appunto veneta).

Se si accetta la definizione del Susmel di ecosistema (4), come il complesso dei fattori fisici, ambientali, economici e sociali che concorrono a individuare un habitat dotato di sufficiente omogeneità per essere analizzato con utilità e di sufficiente ampiezza e consentire analisi differenziate, si può ben dire che nell'area veneta la Montagna, la parte nord della Regione, forma un ecosistema. In ogni ecosistema di adeguata ampiezza è facile individuare aree marginali, nelle quali i fattori caratterizzanti entrano in crisi per cause le più varie, storiche, culturali, ambientali o fisiche, che limitano talora grandemente l'effetto degli elementi positivi e qualificanti. Per naturale attrazione, infine (e sono ancora solo cenni d'impostazione), i fattori positivi tendono a concentrarsi sul territorio, innescando una forbice per cui le aree privilegiate ("forti") tendono a diventare sempre più forti e quelle marginali sempre più emarginate.

Compito della programmazione economica, sociale e politica è di correggere i fattori divaricanti, non già mortificando quelli positivi, operanti nelle aree forti, ma mirando a limitare l'effetto di quelli di emarginazione, attraverso forme di intervento incentivante idonee e organiche. Quest'ultimo aspetto acquista ruolo crescente nell'attuale congiuntura politica: accanto alle leggi (se pur ne esistono ancora nella globalizzazione dilagante) dell'economia, operano imposizioni autoritative sempre più penetranti e condizionanti.

L'ordinamento comunitario, in particolare, imposta la sua azione sulle ferree leggi del mercato, eretto a criterio supremo dell'azione dell'U. E.. Ne consegue che qualsiasi intervento correttivo dell'andamento "naturale", indotto dal gioco dei fattori operanti nelle aree marginali, dev'essere preventivamente concordato e le aree preventivamente individuate di concerto con gli organi comunitari. Il tutto attraverso procedimenti macchinosi e non di rado soggetti a fallimento, a sua volta sempre più frequentemente indotto dall'azione sempre più condizionante di potenti lobby internazionali.

Si creano così marginalità di grandi aree in cui quelle montane vengono ulteriormente marginalizzate, ridotte a riserve sportive (sciistiche) o genericamente vacanziere, in una neocolonizzazione semplicemente alienante.

 

 

 

La cultura dell'autonomia

 

Limitando l'analisi al solo campo giuridico, dell'organizzazione della vita associata sul territorio, pare rilevante soffermarsi su un fattore capace, se opportunamente valorizzato, di diventare elemento positivo trainante dello sviluppo delle aree montane: il forte radicamento territoriale fonte d’un'identità culturale fortemente socializzante, e il richiamo alle istituzioni avite.

Preliminare ad ogni tipo di analisi è un rilievo di fondo: l'importanza dei monumenti giuridici dei nostri padri, accanto, e spesso con non minore splendore, ai monumenti architettonici e alle opere dell'arte figurativa. Vanni riscoperti e valorizzati in chiave moderna gl’istituti antichi, diffusi nell'intera area montana, al di là e trasversalmente alle vicende storiche, culturali ed economiche che ne hanno caratterizzato la vita; suscettibili -quegl’istituti- d’importanti applicazioni anche nel contesto attuale. A dire che non si tratta né di imposizioni esterne, né di modelli indotti artificialmente, ma del frutto dell'evoluzione di forme di vita associata rese omogenee dalla comune generalizzata difficoltà dell'habitat. Frutto di quel carattere proprio ed autoctono della gente della Montagna che è la solidarietà, la partecipazione di tutti alla vita della comunità.

Questa territorializzazione della stanzialità, da una parte, rappresenta una componente storica dell’identità della “gente della montagna”; dall’altra e sul piano pratico potrebbe fare la differenza dell’autonomia della Montagna rispetto all’assetto delle autonomie “locali”, che -presto o tardi- dovranno pur essere riassettate in attuazione della riforma costituzionale del Titolo V, che sta tanto faticosamente cercando realizzazione anche attraverso forme di “federalismo” più urlato che praticato (o praticabile sui presupposti enunciati).

Pare rilevante -come precedente storico di riferimento- richiamare taluni istituti caratteristici degli ordinamenti autonomi dell'area geografica di riferimento, nel pur ristretto ambito della montagna veneto-trentina.

Per primo il culto quasi feticistico dell’autonomia statuaria. Il rispetto delle autonomie ordinamentali (mantenimento del proprio ordinamento e possibilità di mutarlo) fu per la Serenissima Repubblica di Venezia l'unico modo concepibile d’intrattenere i rapporti con le varie Terre via via annesse al Dominio. Al momento delle Dedizioni, agl'inizi del secolo XV, tale rispetto fu il tramite strategico per "farsi accettare". Gli interventi correttivi "dal centro" furono agl'inizi molto radi e quando s'infittirono ebbero sempre funzione suppletiva di carenze "locali" o decisori di controversie insolubili nell'ambito dell'ordinamento vigente (5).

Sfidando le riserve di certo storicismo revisionista, si potrebbe additare proprio nell'ordinamento della Repubblica di San Marco un modello d’una cultura dell'autonomia fatta di rispetto del "locale". Ancora al di là dell'esaltazione idealizzante, va, peraltro, ricordato che, a condividere l'analisi di uno dei più attenti storici dell'ordinamento veneziano, quel Daniele Manin che sarà l'eroe della rivoluzione quarantottesca, fu proprio il mancato bilanciamento tra rispetto delle autonomie ed esigenze dello Stato centrale a condurre la Repubblica al dissovilmento (6).

Un secondo elemento caratterizzante fu la gelosia della stanzialità; la diffidenza verso il “foresto” che doveva conquistarsi l’incolato (il diritto di cittadinanza piena) attraverso lunghi periodo di “noviziato”. Indicativo in tal senso lo Statuto del Primiero (Terra imperiale) del 1367:

“Stabiliamo che nessuno del Distretto di Primiero possa accettare le regioni, le azioni o qualche diritto da Uomini di altro Distretto contro residenti in Primiero, sempre che non fosse fidejussore, che in questo caso faccia ricorso contro il debitore dopo che lui avesse pagato il debito, o per il pagamento del suo debito senza frode. E se qualcuno accettasse altrimenti sia condannato a cento soldi di danari piccoli per il Comune (rubrica 17L. II).

“Stabiliamo che nessun uomo forestiero possa venire a raspare a Primirero né nel suo Distretto, sotto pena e multa di 25 libre di denari piccoli per ciascuno e per ciascuna volta. E che nessuno possa raspare in Primiero senza avere prima pagato la tassa (rubrica 21 L. III).

“Stabiliamo e ordiniamo che a nessuna persona del Distretto di Primiero sia concesso portare qualcuno del medesimo Distretto davanti a un giudice di altro Distretto o giurisdizione. E il Podestà o Rettore sia tenuto a difendere con tutti i diritti affinché nessuno venga citato davanti a un giudice di un'altra giurisdizione. E chi volesse citare qualcuno in questo modo e non secondo gli Statuti del Comune di Primiero sia condannato a 25 lire di denari piccoli ciascuno e per ciascuna volta (rubrica 22 L. 111) (7).

 

Nell'attuale crisi generalizzata dei rapporti umani e quindi degli ordinamenti, sono questi i fattori che potrebbero segnare la differenza dello sviluppo delle aree montane rispetto alla ricerca di formule nuove di convivenza delle cosiddette aree forti. Lo studio dell'ambiente montano nei suoi aspetti fisici, economici e relazionali con le aree confinanti va riferito all’ecosistema globale e complessivo, dove l'elemento organizzativo (o, se si preferisce, di giuridicizzazione della vita associata) acquista ruolo preminente e specifico. In questa chiave appare attualissima l’individuazione della funzione del giurista, messa bene in vista dal Benvenuti nella prolusione d’uno dei Convegni del 1985: "non è inopportuna la presenza e la parola del giurista per sintetizzare gli aspetti del tema, non solo perché è inevitabile che ogni contesto politico ed economico abbia una sua struttura giuridica, ma anche perché probabilmente è il giurista che riesce a trovare la radice fondamentale di questo discorso"  (8).

Approfondendo appena la materia, ci s’imbatterà sul tema dell'autonomia sostanziale, che in tanto “vale” in quanto riesca ad uscire dai luoghi comuni, in cui solitamente annega: enunciati vuoti, di cui universale è la condivisione, per non dire la professione vibrante, proprio in ragione della vacuità dei contenuti. Ed è proprio il consenso apparentemente illimitato che finisce per farne smarrire ogni contenuto concreto, portando ad accettarne senza sufficiente discernimento applicazioni che nella sostanza ne tradiscono la funzione (tipica in tal senso e per la Montagna la vicenda della Comunità Montana, presentata come il trionfo dell’autonomismo sia normativo che gestionale).

Per le aree montane, di solito a bassa densità demografica (e quindi di scarso peso politico in termini di voti) ma di enormi problemi territoriali, il discorso diventa particolarmente delicato e complesso; invero nella dinamica evolutiva sempre minori restano gli spazzi per l’affermarsi di effettive autonomie nell’organizzazione e gestione delle funzioni pubbliche da parte delle aggregazioni territoriali “minori” nel rapporto con gli Enti Locali istituzionali, Comune, Provincia e Regione (9).

 

 

 

La solidarietà nelle aree montane

 

Espressione “interna” al contesto sociale dei fattori storici sopra accennati è la fortissima solidarietà che lega la gente della Montagna  e ne condiziona gli ordinamenti frutto ed espressione dell’iniziativa dei residenti (nel linguaggio risalente definiti ”antichi abitatori”).

Il tratto per lunghi secoli caratterizzante del costume di vita della gente della Montagna è dato da quella particolare forma di organizzazione della comunità e delle famiglie (fuochi) che la componevano, per le gestione comune della proprietà collettiva di boschi e pascoli gli unici fattori di sopravvivenza nelle difficoltà dell’habitat (10). Istituzioni variamente denominate nelle varie aree (Regole in Cadore, le più note; Colonnelli nell’Altopiano dei 7 Comuni; Comunelle nella Patria del Friuli; Comunanze nella Bresciana; Quadre nella Bergamasca), ma retta da principi e regole largamente analoghi, se non strettamente omogenei. Dove le vicende storiche "locali" hanno giocato ruolo assai marginale nel complesso ordinamentale del fenomeno, spesso limitando la differenziazione a diversità solo terminologiche (11).

Senza poter riandare in questa sede alla compiuta analisi dei tratti della proprietà collettiva che ha caratterizzato le popolazioni dell'intero arco alpino dal loro primo affacciarsi sulla scena storica fino al cosiddetto periodo della codificazione dell'Ottocento, col sopravvento della norma scritta sul diritto consuetudinario, pare opportuno accennare qui a due caratteri ben marcati, suscettibili di diventare punto di riferimento per un restauro non solo possibile, ma ritenuto l'unico strumento di soluzione dei molti problemi accennati: la natura consuetudinaria della fonte normativa autonoma e la sua effettività.

La matrice delle norme figliate dall'autonomia è la consuetudine; laudi e carte di regola altro non sono che la codificazione della consuetudine. La consuetudo fu per lunghi secoli l'unica fonte normativa operante; essa venne sostituita della legge scritta, "che finirà, quando che sia, col metter capo alla territorialità del diritto" (12). Problema storiografico rilevantissimo (e non certo risolvibile in questa sede; qui è rilevante solo segnalarlo per il ruolo che svolge sul piano operativo) è individuare come nascesse la consuetudine; in altri termini chi fossero gli homines qui faciunt consuetudinem, sulla cui identificazione si è soffermata con particolare attenzione la storiografia degli ordinamenti montani negli ultimi cinquant'anni (13). Senz'alcuna pretesa di dare soluzioni, pare che allora come oggi siano stati e siano i leader delle attività economiche dominanti, che da sempre cercano di monopolizzare la formazione degli ordinamenti, per adattarli, o per lo meno per renderli sensibili, alle loro esigenze.

Correlata a tale genesi e quasi come modalità della formazione della norma, anteriore alla sua codificazione, è la sua effettività: la norma nasce dalla reiterazione d'un comportamento ritenuto dovuto per opinio juris ac necessitatis, quale che ne sia l'oggetto e/o il rapporto con la norma precedente. In questo senso sovviene la teoria ordinamentale del Sarpi, il più grande giurista espresso nella sua millenaria storia dalla Serenissima, secondo cui il mondo giuridico è il regno dell'effettività, non della norma: "niente è più autorevole della consuetudine; essa sola è legge. Il giure scritto è una larva, se a quella non s'aggiunge" (14).

La tipicizzazione delle fonti di produzione normativa dell'attuale ordinamento, fa diventare consuetudo normativa quella sopra definita cultura dell'autonomia, che significa essenzialmente attribuzione d’importanza ai valori ritenuti essenziali per la convivenza della comunità interessata e possibilità di trasferirli in norme idonee a gestirli secondo i propri apprezzamenti, senza imposizioni coercitive "esterne". Nel distacco della politica dalla vita, che sembra caratterizzare l'attuale stadio evolutivo dell'ordinamento -il cui segno più evidente, anche se non il più significativo, è il crescente astensionismo elettorale- anche le enunciazioni di principio, i solenni impegni politici, vengono sempre più frequentemente ignorati; non contraddetti, ma ignorati. Abbiamo assistito a leggi di programmazione, frutto di serrati dibattiti con impegno di enormi risorse assembleari, cadute nel nulla dopo la promulgazione; in questo quadro di carenza di effettività va approfondito il tema della cultura dell'autonomia.

Nella generale crisi degli ordinamenti, l'ambiente montano presenta il vantaggio -non di poco conto nella guerra dei campanili che imperversa nella nuova organizzazione territoriale delle funzioni e dei servizi- di una confinazione precostituita e rigida, alla quale occorre soltanto commisurare la quantità di mansioni attribuibile in relazione alla possibilità di gestione. Se confine è essenzialmente un limite "e precisamente quel limite entro il quale ha vigore un ordinamento giuridico; un limite entro il quale l'ordinamento giuridico diventa effettivo e impone la propria effettività", come affermava ancora il Benvenuti nel già ricordato Convegno, l'unico confine rilevante nell'organizzazione giuridica della Montagna resta quello geografico della vallata ed i problemi del coordinamento delle funzione si pongono solo ad integrazione della possibilità di valle (15).

Un fenomeno positivo e in controtendenza del generale degrado dell’ecosistema si può ravvisare in taluni recenti interventi legislativi -ovviamente regionali- di ripristino delle istituzioni delle antiche proprietà collettive; si segnala la legge regionale del Veneto n. 26 del 1996, sul riconoscimento  giuridico delle antiche Regole Cadorine, integrata dalla legge regionale n 14 del 2012, di estensione della disciplina ai Colonnelli dell’Altopiano dei Sette Comuni, e la legge n. 3 del 1996 della Regione Friuli Venezia Giulia, sulla ricostituzione delle Comunelle, istituzioni strettamente analoghe alle Regole/Colonnelli.

 

 

Funzione e servizi

 

Dopo l'ubriacatura del pubblico propria degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, in cui pareva che ogni cosa buona potesse derivare solo dalla pubblicità del relativo esercizio, stiamo assistendo ora al moto contrario del pendolo (invenzione del resto tipicamente italiana), col dilagare delle privatizzazioni. Quello che in realtà si ricerca è l'efficienza dei servizi, unico presupposto d'un vero progresso (e non solo ovviamente per le aree montane).

Nell'attribuzione delle nuove funzioni, l'unico criterio rispettoso dell'autonomia è l'attuazione effettiva del principio di sussidiarietà più e più volte rimarcato: lasciare al "locale" tutto quanto rientra nelle sue possibilità decisionali e gestorie.

Se fosse consentito rappresentare il concetto attraverso un'immagine icastica, lo schema organizzativo del potere pubblico potrebbe essere ravvisato in una fontana a vasche concentriche degradanti. Nella concezione ottocentesca del centralismo, il potere sgorgava da un cannello posto al vertice: il detentore della sovranità per grazia di Dio (e, col '48 savoiardo, "per volontà della Nazione"); nell'impostazione costituzionale dell'attuale ordinamento, avviata ad attuazione con la legge generale sul procedimento amministrativo n. 241 del 1990 e completata con le riforme Bassanini e costituzionale, lo schema si è capovolto: il potere sgorga dal basso, dal popolo sovrano (articolo 1 della Costituzione) esprimendosi col voto, riempie la prima vasca nelle strutture locali e sale su su per i vari (ancora decisamente troppi) gradoni, per giungere al vertice. Tutto l'apparato, che riceve l'investitura (titolarità della funzione) dal basso, è posto dall'articolo 98 della Costituzione "al servizio esclusivo della Nazione".

La cultura dell'autonomia si esprime essenzialmente attuando con effettività il principio -ora di rango costituzionale- della sussidiarietà introdotto dal nuovo art. 118 Cost., lasciando al locale tutto quello che non è necessario sublimare, accentrandolo. Nelle aree montane, in relazione alla relativa corografia condizionante, il principio non può che venire attuato rivitalizzando l’istituto della Comunità Montana -eventualmente sotto nuova etichettatura per evidenziare la discontinuità- in cui si accorpano tutte le funzioni di Comuni e Province, affidando alla “gente della Montagna” le sorte del suo territorio, pur nella sopravvivenza e nel rispetto degli antichi istituti della proprietà collettiva storica, aperta peraltro a nuovi residenti che abbiano ”sposato la Montagna”.

 

 

L'autonomia degli ordinamenti

 

S'è parlato di sovranità, che, secondo l'ordinamento costituzionale, "sgorga" da qualche sorgente. I concetti tradizionali, spesso risalenti al Grozio (16), sono abbondantemente superati. S'è passati della concezione dello Stato-ordinamento (Ordnung und Boden), attraverso lo Stato razziale (Blut und Boden), alla concezione di un ordinamento sovranazionale, in cui la stessa nozione di sovranità sta cedendo, svuotata da rinunce sempre più marcate a quote sempre più vaste di potere effettivo. Nell'ambito dell'U.E. si parla di passare dall'unanimismo originario al principio maggioritario, che significa stabile abdicazione alla sovranità intesa nel senso classico e tradizionale. E' una radicale rivisitazione dei concetti e dei valori tradizionali.

Con la legge generale sul procedimento amministrativo n. 241 del 1990 -pur oggetto d’una fitta serie di modificazioni ed aggiustamenti- sono stati riconosciuti e garantiti a livello anche normativo gli interessi diffusi. Nella giurisprudenza dei giudici amministrativi si va affermando una specie di Amministrazione parallela a quella istituzionale, con riconoscimento della legittimazione all'impugnativa degli atti amministrativi ad Associazioni; il che significa creare un doppio binario di legalità: l'uno istituzionale, l'altro nascente da aggregazioni volontariali che rappresentano stabilmente interessi di fatto (17) .

In nome del principio di effettività dell'ordinamento e del pluralismo degli interessi riconosciuti, l'autonomia organizzativa delle comunità acquista possibilità nuove sia nelle forme delle aggregazioni che nella rappresentanza dei valori ritenuti rilevanti. Sul piano della metodologia di affermazione dei valori va approfondita l'analisi e l'individuazione dei centri decisionali effettivi e reali. Che la politica sia sempre stata determinata da lobby condizionanti non è certo né scoperta originale né maldicenza gratuita. Solo che nel sistema autoritario e centralista riusciva più facile far coincidere la sovranità delle decisioni con la tutela degli interessi lobbystici; una coincidenza che, anche se fortemente sospettata, raramente poteva venire provata, limitandosi la sua pur aspra denuncia ad invelenire la vita associata. Ora la concorrente azione del principio della partecipazione generalizzata alla genesi degli atti e delle scelte amministrative, unita all'azione delle aggregazioni di vasti interessi diffusi con possibilità di sindacato e di reciproco controllo anche giurisdizionale, finiranno per portare a galla i processi decisionali effettivi, dando alle scelte una paternità ben individuata, in un sistema di trasparenza, che la partecipazione attiva e costante dovrebbe assicurare.

In questo quadro, che allo stato non può non apparire avveniristico ma che ha tutte le premesse per diventare vero e reale, la cultura dell'autonomia acquista possibilità operative insperate. Essa passa sempre attraverso la partecipazione, che dovrà imparare ad esprimersi nella forme più varie e rispondenti ad interessi ben precisi e specifici, per assicurare, attraverso il coinvolgimento, l'effettività necessaria per farla diventare fonte normativa. Essa deve maturare nelle convinzioni profonde, prima che negli enunciati programmatici (o elettorali), per diventare costume di vita. Se fosse consentito sintetizzare il concetto in un aforisma, come va ora di moda, si potrebbe ben dire che l'autonomia non è un fatto di commi (di disposizioni legislative più o meno concessive) ma di cultura.

Solo la partecipazione di tutti alla scoperta e all'affermazione dei nuovi valori della Montagna può portare alla sua rivitalizzazione; essa trova nella partecipazione la chiave essenziale ed esclusiva, facendo tornare viva ed attuale l'affermazione del Sarpi che l'autonomia si professa, non si rivendica (18).

 

 

 

 

1) Analisi della "legge Serpieri" a commento e chiosa della legge regionale forestale veneta n. 52 del 1978 è contenuta nel mio La legge forestale regionale, Padova, Editoriale Programma, 1990.

 

2) Va segnalata come acme dell’anacronismo l’addizione apportata alla L. 97/1994 dalla legge 28 dicembre 12001 n. 448 dell’istituto della “conservazione dell’unità fondiaria”, con l’indivisibilità dell’unita minima, demandando alle Regione la relativa disciplina applicativa, che ovviamente nessuna Regione s’è peritata di riprendere; cfr. C. & A. Trebeschi, Comunioni familiari montane: soltanto antiche? In Archivio Bolla 2008, pag. 114.

 

3) Breve ma intensa fu la stagione dell’interesse per il sistema alpino inserito in un contesto territoriale continentale; ci si limita a ricordare i due Convegni indetti dalla Regione Lombardia, tenutisi, il primo, su "Le Alpi e l'Europa", a Milano da 4 al 9 ottobre 1973, i cui ponderosi atti furono pubblicati nel 1975 in cinque volumi presso Laterza: vol. I, Il sistema alpino; vol. II, Uomini e territorio; vol. III, Economia e transiti; vol. IV, Cultura e politica; vol. V, Proposte per le Alpi; il secondo a Lugano, dal 14 al 16 marzo 1985, su "Le Alpi per l'Europa", i cui atti furono pubblicati nel 1988, presso Jaca Book, in unico volume, Le Alpi per l'Europa, una proposta politica: economia territorio e società; istituzioni, politica e società.

 

4) L. Susmel, Principi di ecologia; fattori ecologici, ecosistema, applicazioni, Padova, Cleup, 1990, che sottolinea il sopravvento della "visione antropocentrica" alla concezione ottocentesca di ecologia come "la scienza che studia le condizioni di esistenza degli organismi viventi e le interazioni di ogni natura fra organismi ed ambiente fisico e fra organismi ed organismi" (pag. 5), col passaggio all'ecologia umana "che ha confini non facili a definire poiché è "un mosaico di ecologia generale, di ecologia animale (in quanto l'uomo è un animale) e di qualcosa si strettamente specifico dell'uomo (sociologia, economia, politica, urbanistica, giurisprudenza), si ha una nozione complessiva ancorché solo descrittiva di ecosistema (pag. 7); sul punto si rinvia a G. Marcuzzi, Elementi di ecologia umana, Padova, Patron, 1976, pag. 249.


5) Il sistema politico instaurato nei Domini, rimasto sostanzialmente immutato nei quattro secoli della Dominazione è descritto nei miei Le autonomie "locali" nella Serenissima e Stato e Chiesa nel contado veneto sotto la Serenissima, nella collana Civiltà Veneta (serie di venti volumi uno all’anno dal 1993), presso Signum editore, rispettivamente del 1992 e del 1989; da ultimo Venezia e la Terra Ferma, Noventa Padovana, Panda, 2009; per un intervento decisorio di controversie localmente insolubili si veda la Sentenza. Bragadina del 1642, che riordinò l'assetto organizzativo della Spettabile Reggenza dei Sette Comuni ovviando ad una crisi irreversibile, nel mio L'autonomia dei Sette Comuni nel Dominio della Serenissima, op. cit., pag. 458.

 

6) Ecco il celebre passo segnalato: "era nella veneta legislazione e si mantenne finché durò la repubblica un difetto allora comune in Europa: non uniformità di legge in tutta l'estensione dello Stato. Lasciavansi reggere le provincie di terraferma e d'oltremare da' particolari loro statuti o leggi municipali: lo statuto veneto valeva come diritto sussidiario, e secondo questo si rendeva ragione a' Veneziani quando si trovavano in dette provincie": D. Manin, Giurisprudenza veneta, in AA.VV., Venezia e le sue lagune, Venezia, nell'I.R. stabilimento Antonelli, 1847, vol. I, p. I, pp. 273-342, qui pag. 288.

 

7) In AA.VV., Primiero, storia e attualità, s.i.e., 1984, pag. 130 ss.; raspare (traslato da raspa, grossa lima), sta per fare denuncia c/o sostenere l'accusa per fatti criminali. "Raspa comunemente chiamavasi, ne' tempi veneti, quel libro si cui si registravano le sentenze criminali d'ogni sorta. Quindi essere in raspa = aver de' pregiudizi criminali"; G. Boerio. Dizionario del dialetto veneziano, Venezia, co' tipi di Andrea Santini e & Figlio, 1819, alla voce.

 

8) Prolusione del Convegno di Lugano del 1985 citato in nota 2, Atti, pag. 15.

 

9) Sta diventando luogo comune l'affermarsi di un neocentralismo regionale nell'ambito della più o meno vasta (a seconda dei punti di vista) autonomia introdotta dalla riforma del titolo V della Costituzione; il tema del riparto di attribuzioni, in corretta applicazione del principio di sussidiarietà affermato dal nuovo art. 118, è ben lungi dal passare nel circuito applicativo: è prevedibile che sia il tema di confronto/scontro nei prossimi anni.

 

10) Sull'istituto della proprietà collettiva non posso che limitarmi al richiamo dei miei scritti sia sistematici che occasionali, a cominciare da La proprietà collettiva nella montana veneta sotto la Serenissima, nella collana Civiltà veneta, presso Signum di Padova, 1988, alla pubblicazione delle due sentenze del Commissariato per la Liquidazione degli usi civici di Venezia, fondamentali in materia: la Sentenza Terracina sugli usi civici, Asiago, Spettabile Reggenza dei Sette Comuni, 1983, e La sentenza Fletzer sulle Regole, Belluno, Istituto bellunese di Ricerche sociali e culturali, 1989, oltre ad altri interventi su singoli aspetti, ivi richiamati; per esposizione della disciplina cfr. il mio (in collaborazione) Manuale di diritto regoliero, Belluno, Istituto bellunese di ricerche sociali e culturali, 2010.

 

11) Pur non essendo state sufficientemente studiate le analogie (e le differenze) tra le Regole cadorine (o genericamente venete) e quelle trentine, nel cui assetto ebbe ad influire marcatamente il sistema feudale, esse balzano abbastanza evidenti dall'esame di due (non più tanto recenti) studi separati delle due istituzioni: G. Richiebuono, Antichi laudi delle Regole (fino alla fine del 4000), Cortina d'Ampezzo, Cassa Rurale, 1972 e N. Nequirito, Le carte di regola delle Comunità trentine, Mantova, Arcari, 1988.

 

12) F. Schupfer, Manuale di storia del diritto italiano, Città di Castello (Lapi) - Roma (Loescher), 1895, pag. 141; l'A. continua rilevando che "le fonti distinguono frequentemente i buoni dai cattivi usi: bonus et pravus usus; bona et mala consuetudo, la consuetudo e l' abusio.... Più tardi Federico II vorrà riservato il nome di consuetudine a quelle che erano buone e chiamerà le altre abusiones". La gerarchia delle fonti era fin d'allora ben chiara se "in un capitolo longobardo di Pipino" è detto che placuit inserere, ubi lex deest praecellat consuetudo, at nulla consuetudo superponatur legi"; per descrizione del passaggio dal diritto solo consuetudinario a quello codificato rinvio al mio Ordinamento giuridico dei Longobardi, Venezia, Corbo & Fiore, 2011.

 

13) Analisi del fenomeno e riferimenti alle varie tesi emerse nella storiografia in G. Zanderigo Rosolo, Appunti per la storia delle Regole del Cadore, Belluno, Istituto bellunese di ricerche sociali e culturali, 1983, pag. 193: "si chiese in quell'occasione (in un processo avanti al Podestà caminese del 1255) ai testi che tentavano di definire la consuetudo regoliera "Qui sunt illi qui faciunt consuetudinem?'. Essi risposero variamente: "Homines Cadubrii", "habitatores Cadubrii", "homines terrae", "regulae", "consortes villarum". Si riconosceva con questo non soltanto che vi erano degli usi costanti, ma che vi era anche un'attività "legislativa" da parte degli homines, distinta da quella del feudatario".

 

14) Lettera al Leschassier del 27 aprile 1610, in F. L. Polidori, Lettere di fra Parlo Sarpi, Firenze, Barbera, 1863; altri riferimenti nel mio Paolo Sarpi, Venezia, Corbo & Fiore, 1997, pag. 32.

 

15) M. Guidetti - P.H. Stahl, Un'Italia sconosciuta, comunità di villaggio e comunità familiari nell'Italia dell'800, Milano, Jaca Book, 1977; si tratta della raccolta di una serie di studi risalenti alla fine dell'Otto-inizi del Novecento sulle forme non solo di proprietà collettiva, ma anche di entità aggregative di rilevanza politica esistenti nel Nordest, dalle Comune polesane, alle vicine del Valcamonica, della Val di Scalve e di Pieve Tesino (a dire dell'unitarietà talora anche nominalistica di istituti strettamente analoghi), al Centenaro cadorino, studiato dal "mio" sindaco (di Stra) Antonio Pertile, alla Comunità della Val di Fiemme.

 

16) Rassegna delle dottrine tradizionali ed analisi dei nuovi spunti costituzionali in F. Modugno, in AA.VV., Enciclopedia giuridica del diritto, Milano, Giuffré, vol. XXXX, 1980, alla voce Ordinamento giuridico (dottrine generali), pp. 678-736.

 

17) Per analisi della rilevanza formale e del funzionamento sostanziale dell'associazionismo non posso che rinviare al mio La funzione sociale, Padova, Cedam, 1994.

 

17) Il rilievo è tratto dal Cozzi, che, a commento della linea di condotta suggerita dal Sarpi Consultore in jure della Repubblica contrario al partito della trattativa, patrocinata dal Paruta, nel rapporto con la Curia Romana, "riteneva che la sovranità (che possiamo pacificamente identificare con l'autonomia come qui intesa) si difende non proclamandola o dibattendola in discussioni, quanto esercitandola di fatto nel modo più fermo possibile": G. & L. Cozzi, Paolo Sarpi, in AA.VV. (a cura di G. Arnaldi & M. Pastore Stocchi), Storia della cultura veneta, Vicenza, Pozza, vol. IV, t. II, 1983, Il Seicento, pp. 1-36, qui pag. 26; sul pensiero politico del Sarpi rinvio al mio Paolo Sarpi giurista, Padova , Cedam, 2002.

 
 
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