DISPOSIZIONI RAZIONALIZZATRICI DELL’ARBITRATO
lunedì 26 aprile 2010

di ALBERTO BORELLA.

Appunti a prima lettura 
(Ass. Ven. Avv. Amministrativisti – Padova 24 aprile 2010)
1) Il ripristino dell'arbitrato nei contratti pubblici (comma 1 bis dell’art. 241 D.Lgs. n. 163/2006)
Il codice dei contratti pubblici aveva confermato l'arbitrato disciplinando minuziosamente all'art. 241 gli arbitrati non amministrati dalla camera arbitrale ed all'art. 243 quelli amministrati: e cioè "gli arbitrati in cui il presidente è nominato dalla camera arbitrale".
A poco più di un anno dall'entrata in vigore del codice dei contratti la legge finanziaria 2008 (l. 24 dicembre 2007 n. 244 art. 3 comma 19) aveva introdotto il divieto alle pubbliche amministrazioni "di inserire clausole compromissorie in tutti i loro contratti aventi ad oggetto lavori, forniture e servizi ovvero, relativamente ai medesimi contratti, di sottoscrivere i compromessi" (restavano esclusi dal divieto, si ignora se per distrazione o scelta meditata, "le controversie su diritti soggettivi, derivanti dall'esecuzione dei contratti relativi ai concorsi di progettazione e di idee").
Sennonchè una settimana dopo il D.L. 31 dicembre 2007 n. 248 (cosiddetto “mille proroghe”) differì al 1 luglio 2008 l’operatività del divieto: il termine è stato varie volte differito, da ultimo fino al 30 aprile 2010: nel frattempo è stato emanato il D.Lgs n. 53/2010 che entrerà in vigore il 27 aprile prossimo, e cioè tre giorni prima dell’entrata in vigore del divieto.
L’art. 15, comma 4 del decreto legislativo n. 53/2010 ha abrogato gli artt. 3, commi 19, 20 e 21 della l. n. 244/2007 che vietava gli arbitrati.
Di qui, dunque, il pieno ripristino dell’istituto disciplinato dall’art. 241 del codice dei contratti, sia pure con numerose modifiche.
La modifica più rilevante dell'art. 241 è costituita dal comma 1 bis, che di fatto riduce l'arbitrabilità delle controversie, vietando, relativamente ai contratti pubblici, il compromesso (art. 807 c.p.c.) una volta insorta la controversia.
Sono pertanto arbitrabili solo le controversie relative a contratti già contenenti la clausola compromissoria.
Per la verità accadeva raramente che venisse convenuto tra le parti il ricorso ad arbitrato, mediante compromesso per la soluzione di una controversia già insorta, se l'arbitrato non era previsto ab origine dalla clausola compromissoria.
E’ il caso di osservare che al divieto di compromesso fa da contrappunto la permanenza della transazione (art. 239) e dell’accordo bonario demandato all’arbitraggio della commissione previsto dal comma 11 dell’art. 240.
L'arbitrabilità delle future controversie deve essere dunque prevista fin dal bando di gara o lettera d'invito: ovviamente per iniziativa dell'amministrazione.
Altra rilevante novità è la facoltà attribuita all'aggiudicatario di ricusare la clausola compromissoria ad aggiudicazione avvenuta, con comunicazione da effettuare entro 20 giorni dalla conoscenza dell'aggiudicazione.
Viene così rovesciato l'istituto della declinatoria dell'arbitrato, attribuito un tempo alla parte convenuta (normalmente l'amministrazione) dall'art. 47 del capitolato generale del 1962.
Bisogna però tener presente che in base all'art. 47 del vecchio capitolato generale la parte attrice poteva escludere la competenza arbitrale, prevista in via generale dall'art. 43, notificando la citazione avanti il giudice competente.
2) Il presidente del collegio arbitrale (comma 5 dell’art. 241)
Un’importante innovazione introdotta dal decreto legislativo riguarda la nomina del terzo arbitro, già disciplinata dall’art. 241 comma 5 del codice dei contratti: che si limitava a prescrivere che il presidente del collegio arbitrale dovesse essere scelto “tra soggetti di particolare esperienza nella materia oggetto del contratto cui l’arbitrato si riferisce”.
La novella prescrive, oltre all’esperienza, il possesso “di precipui requisiti di indipendenza”.
E’ il caso di osservare che “indipendenza” è concetto diverso da “imparzialità”.
Il codice di procedura civile non prescrive l’obbligo di imparzialità, ma lo sottintende, come per i giudici: l’art. 815 c.p.c. ante riforma del 2006 si limitava a rinviare, quanto alla ricusazione degli arbitri, all’art. 51 c.p.c. relativo all’astensione dei giudici.
La riforma del 2006 ha individuato una serie di motivi di ricusazione specifici rispetto alla previsione dell’art. 51 c.p.c. (scelta duramente criticata da Consolo, fra gli altri).
“Imparzialità” e “indipendenza” non sono affatto sinonimi.
L’art. 55 del codice deontologico forense stabilisce che “l’avvocato chiamato a svolgere la funzione di arbitro è tenuto ad improntare il proprio comportamento a probità e correttezza e a vigilare che il procedimento si svolga con imparzialità ed indipendenza”.
L’imparzialità deve contraddistinguere l’operato dell’arbitro, l’indipendenza è uno status, derivante dall’assenza di rapporti condizionanti tra l’arbitro, le parti ed i loro difensori.
Un arbitro può essere indipendente (non avendo con le parti alcuno dei legami indicati dall’art. 815) e comportarsi in maniera parziale. Così come un arbitro non indipendente può comportarsi in modo imparziale.
A tutela dell’indipendenza del presidente del collegio la novella stabilisce che costui, oltre ad avere particolare esperienza ed essere munito di precipui requisiti di indipendenza, non deve aver esercitato nell’ultimo triennio “le funzioni di arbitro di parte o di difensore in giudizi arbitrali disciplinati dal presente articolo, ad eccezione delle ipotesi in cui l’esercizio della difesa costituisca adempimento di dovere d’ufficio del difensore dipendente pubblico”.
In parole povere l’avvocato dipendente di un ente pubblico, che abbia svolto nel triennio la funzione di difensore della parte pubblica in qualità di dipendente, può essere nominato presidente di un collegio arbitrale, a differenza dell’avvocato del libero foro che per il fatto di avere espletato funzioni di arbitro di parte o difensore nel triennio non potrà fare il presidente.
Il divieto di assumere le funzioni di presidente per chi nel triennio abbia svolto funzioni di arbitro di parte o di avvocato in procedimenti arbitrali riecheggia in certo qual modo la previsione dell’art. 151 comma 8 del regolamento dei lavori pubblici (D.P.R. n. 554/1999, annullato dal Consiglio di Stato) che stabiliva l’incompatibilità tra l’iscrizione all’Albo degli arbitri tenuto dalla Camera arbitrale con lo svolgimento dell’incarico di arbitro di parte in altri giudizi arbitrali.
In sostanza l’avere svolto funzioni “di parte” determinerebbe una presunzione assoluta di “non indipendenza”, tale da minare l’imparzialità del terzo arbitro.
Tale incompatibilità farà sicuramente molto discutere.
L’incompatibilità dovrebbe valere anche per gli avvocati dello Stato e degli enti pubblici che abbiano svolto le funzioni di arbitro di parte, perchè l’eccezione riguarda soltanto l’espletamento della difesa quale adempimento di dovere d’ufficio.
Di rilevante importanza è la sanzione di nullità del lodo pronunciato da un collegio presieduto da un soggetto che nel triennio precedente la nomina abbia svolto funzioni di arbitro di parte o avvocato: e ciò a’ sensi dell’art. 829, primo comma, n. 3 in forza del quale “non può essere arbitro chi è privo, in tutto o in parte, della capacità legale di agire”, a norma dell’art. 812.
L’equazione incompatibilità = incapacità di agire appare piuttosto azzardata.
Indipendentemente da ogni valutazione sull’opportunità della norma, è agevole osservare che il legislatore avrebbe potuto limitarsi a prevedere la nullità del lodo nel caso di nomina del presidente in violazione della norma, senza richiamare, attraverso l’art. 829 comma 1 n. 3, l’art. 812 sull’incapacità legale.
3) Ulteriore incompatibilità (comma 6 dell’art. 241)
L’art. 5, comma 1, lettera d) del decreto legislativo ha introdotto un ulteriore caso di ricusazione, oltre a quelli già previsti dal comma 6, stabilendo che “non possono essere nominati arbitri” anche “coloro che in qualsiasi modo abbiano espresso un giudizio o un parere sull’oggetto delle controversie stesse anche ai sensi dell’art. 240”: e cioè che abbiano fatto parte della commissione nel procedimento di accordo bonario.
Non può che ribadirsi il rilievo, già emerso a proposito dell’art. 241 originario, che la formulazione della norma (“non possono essere nominati arbitri”) potrebbe prefigurare una causa di incapacità dell’arbitro, che in realtà non è affatto prevista dall’art. 815 c.p.c., che fissa un termine perentorio per la ricusazione: con la conseguenza che la sua mancata proposizione non consentirebbe di eccepire in sede di impugnazione la nullità del lodo.
Vero è che la diversa disciplina delle cause di incompatibilità - riconducibili alla ricusazione ex art. 815, contenuta nel comma 6 – rispetto all’ipotesi della nomina del presidente del collegio effettuata in violazione della previsione del comma 5, dovrebbe far concludere che l’unico caso di incapacità, sanzionabile con la nullità del lodo, sia quella che riguarda il presidente, a differenza delle incompatibilità previste dal comma 6, che possono essere denunciate soltanto con la ricusazione.
4) Deposito ed efficacia del lodo (commi 9 e 10 dell’art. 241)
La novella ha riscritto il comma 9 dell’art. 241, la cui formulazione aveva dato luogo a notevole perplessità per il fatto di aver previsto che “il lodo si ha per pronunciato con il suo deposito presso la Camera arbitrale per i contratti pubblici”: con la conseguenza che il lodo pur sottoscritto dagli arbitri, ma non ancora depositato, si sarebbe dovuto considerare addirittura inesistente.
Opportunamente è stato previsto che “il lodo si ha per pronunciato con la sua ultima sottoscrizione”, mentre il deposito presso la Camera arbitrale (previsto per tutti gli arbitrati disciplinati dal codice dei contratti, anche per quelli non amministrati dalla Camera arbitrale) è condizione di efficacia del lodo.
Il comma 9 ha modificato i termini per il versamento all’Autorità di vigilanza del balzello pari all’1‰ del valore della controversia che, in base al comma 11 ora abrogato, si sarebbe dovuto corrispondere all’atto del deposito del lodo presso la Camera arbitrale.
Il pagamento potrà ora essere effettuato entro 15 giorni dalla “pronuncia” (che coincide con l’ultima sottoscrizione), che non può che essere precedente al deposito: da notare che la novella ha soppresso il termine per il deposito (10 giorni) decorrente dall'ultima sottoscrizione.
Anche il comma 10 è stato integralmente riscritto: l’aspetto più importante è che vengono chiariti i rapporti tra il deposito del lodo presso la Camera arbitrale (dal quale deriva l’efficacia del lodo) dal deposito presso la Cancelleria del Tribunale a’ sensi dell’art. 825 c.p.c., cui consegue l’escutorietà del lodo medesimo.
5) Il compenso degli arbitri (comma 12 dell’art. 241)
La novella precisa che la determinazione del valore della controversia e del compenso degli arbitri possa essere effettuata con il lodo definitivo o con separata ordinanza (come avviene nella prassi), fermo restando il riferimento ai criteri stabiliti dal D.M. 2 dicembre 2000 n. 398, con il dimezzamento dei compensi ed il divieto di incrementi dei compensi massimi “legati alla particolare complessità delle questioni trattate, alle specifiche competenze utilizzate e all’effettivo lavoro svolto”.
L’innovazione più rilevante è costituita dalla fissazione del tetto massimo di 100.000 euro per il compenso per l’intero collegio arbitrale, comprensivo dell’eventuale compenso per il segretario (importo da rivalutarsi ogni tre anni con decreto ministeriale).
Come è noto la tariffa approvata con il D.M. citato, applicabile agli arbitrati relativi ai contratti pubblici, prevede minimi e massimi notevolmente inferiori a quelli della tariffa forense: compensi dimezzati dall’art. 2 D.Lgs. n. 113/2007, che ha vietato anche gli incrementi dei compensi massimi legati alla particolare complessità delle questioni trattate.
La fissazione del tetto vanifica di fatto anche la tariffa “calmieratrice” del 2000 specie per gli arbitrati di maggior valore.
La novella ha tolto l’equiparazione al titolo esecutivo dell’ordinanza di liquidazione del compenso e delle spese arbitrali, degradata a “titolo per l’ingiunzione di cui all’art. 633 c.p.c.”.
E’ stato così eliminato quello che appariva un privilegio eccessivo riconosciuto agli arbitri, che comportava una deroga all’art. 814 c.p.c., che attribuisce alla liquidazione degli arbitri soltanto funzione di “proposta” mentre il titolo esecutivo discende soltanto all’ordinanza del presidente del Tribunale.
Il riferimento all’art. 633 c.p.c. – e non all’art. 814 – lascia aperto un problema: se sia preclusa l’applicabilità del procedimento di liquidazione previsto all’art. 814 agli arbitrati disciplinati dal codice dei contratti pubblici: e cioè se il titolo esecutivo debba essere ottenuto attraverso il procedimento, sicuramente più gravoso, del ricorso per ingiunzione.
6) La pronuncia sulle spese (comma 12 bis dell'art. 241).
Trattasi di una disposizione del tutto nuova, rispetto all'art. 241 previgente, diretta ad integrare l'art. 92, comma 2, c.p.c., che, già modificato dalla riforma del codice di procedura civile di cui alla l. n. 69/2009, così recita: "se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti".
Ferma restando, dunque, tale generica previsione, la novella stabilisce che "il collegio arbitrale, se accoglie parzialmente la domanda, compensa le spese del giudizio in proporzione al rapporto tra il valore della domanda e quello dell'accoglimento".
Va innanzitutto chiarito che le "spese del giudizio" dovrebbero essere soltanto quelle relative all'attività difensiva delle parti e non anche le "spese relative al collegio", che il comma 14 dell'art. 241 - rimasto inalterato - distingue chiaramente dalle spese relative al giudizio.
Ne consegue che salva l'applicazione dell'art. 92, secondo comma (che attribuisce al collegio il potere di compensare, parzialmente o per intero, le spese del giudizio a propria descrizione, salvo l'onere di motivazione) il collegio arbitrale sarà vincolato, nella condanna alle spese della parte soccombente, ad operare la compensazione delle spese del giudizio secondo un criterio di rigida proporzione tra il valore della domanda e quello dell'accoglimento.
Norma, questa, posta a tutela della parte soccombente, che non può essere condannata alla rifusione integrale delle spese laddove la domanda venga accolta soltanto in parte (spesso in minima parte): ciò dovrebbe costituire un freno all'inveterata abitudine di parte attrice di formulare domande esagerate (si chiede 100 per ottenere 10).
L'implementazione del quantum, dunque, dà luogo a due effetti negativi per l'attore: il primo - già noto - che gli onorari degli arbitri verranno determinati sulla base del quantum richiesto (pur con il già ricordato “tetto” di 100.000 euro); la seconda l’accoglimento di una domanda in termini quantitativamente ridotti esporrà l'attore ad una drastica riduzione della rifusione delle spese.
7) L'impugnazione del lodo per violazione delle regole di diritto (comma 15 bis dell'art. 241).
La riforma dell'arbitrato (di cui al decreto legislativo n. 40/2006) ha introdotto una rilevante limitazione all'impugnazione del lodo, prescrivendo, al terzo comma dell’art. 829, che "l'impugnazione per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia è ammessa se espressamente disposta dalle parti o dalla legge" (salvo eccezioni sulle quali non è il caso di soffermarsi).
In sostanza in base alla riforma del 2006 l'impugnazione per violazione delle regole di diritto era ammessa soltanto se già prevista dalla clausola compromissoria o dal compromesso.
La novella ha previsto invece l'impugnabilità, in via generale, anche "per violazione delle regole di diritto relative al merito della controversia": indipendentemente dalla previsione della clausola compromissoria o del compromesso, e ciò in deroga all’art. 829, comma 3.
E' di tutta evidenzia come la novella crei una notevole diversità tra l'arbitrato disciplinato dal codice di rito e quello "speciale" relativo alla materia dei contratti pubblici, estendendo solo per questi ultimi il potere di controllo del giudice dell'impugnazione.
Va segnalata infine un'importante precisazione introdotta relativamente ai termini dell'impugnazione, non disciplinati in precedenza dall’art. 241 del codice dei contratti.
Mentre il termine "breve" (90 giorni dalla notifica del lodo) coincide con quello dell'art. 828 c.p.c., il termine "lungo" viene ridotto rispetto alla previsione dell'art. 828, comma 2, da 1 anno a 180 giorni (da notare che l'art. 327 c.p.c., novellato nel 2009, fissa il termine lungo in 6 mesi e non 180 giorni).
Quanto alla decorrenza del termine "lungo", il comma 15 bis lo fa decorrere non già dalla data dell'ultima sottoscrizione (come previsto dall’art. 828 per gli arbitrati ordinari) ma dalla data del deposito del lodo presso la Camera arbitrale.
8) Inibitoria e decisione dell'impugnazione (art. 15 ter).
La prima parte del nuovo comma si limita a prevedere l'applicazione dell'art. 351 c.p.c. (come se non esistesse la previsione dell’art. 830, ultimo comma c.p.c.) per la sospensione dell'efficacia del lodo se ricorrono gravi e fondati motivi.
La vera novità è costituita dal secondo periodo del comma 15 ter che crea un percorso rapido per la decisione dell’impugnazione nel merito: attribuendo alla Corte d'Appello, chiamata a decidere sull'inibitoria, la "verifica se il giudizio è in condizione di essere definito", per prevedere in tal caso la discussione orale nella stessa udienza in Camera di Consiglio ovvero la fissazione di altra udienza da tenersi nel termine (ovviamente ordinatorio) di 90 giorni dall'ordinanza di sospensione.
In tal caso è prevista l'applicazione dell'art. 281 sexies c.p.c., che prevede la lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione al termine della discussione.
Nel caso in cui ritenga "indispensabili incombenti istruttori, il collegio provvede su di essi con la stessa ordinanza di sospensione e ne ordina l'assunzione in un'udienza successiva di non oltre 90 giorni".
Come ognun vede vi è un intento acceleratorio encomiabile, che richiama per certi aspetti il procedimento dell'art. 23 bis della legge TAR rivelatore peraltro di una non perfetta conoscenza che l’impugnazione del lodo comporta una fase rescindente ed una rescissoria.
Nel silenzio della norma, si dovrebbe ritenere che ove non ricorrano i presupposti previsti dal comma 15 ter, il giudizio avanti la Corte d'Appello seguirà secondo il rito ordinario (art. 830 c.p.c.).
9) Le modifiche per gli arbitrati amministrati dalla Camera arbitrale (art. 243).
Le modifiche all'art. 243 sono minime.
Al comma 5 dell'art. 243, relativo al corrispettivo dovuto dalle parti è stata aggiunta questa frase: "si applicano le disposizioni di cui all'articolo 241, comma 12, secondo, terzo, quarto e quinto periodo".
Il sesto periodo (non applicabile dunque agli arbitrati amministrati) è quello che prevede che l'ordinanza di liquidazione del compenso costituisce titolo per l'ingiunzione di cui all'art. 633 c.p.c..
Rimane pertanto tuttora aperto il problema della portata e degli effetti della determinazione della camera arbitrale e della sua impugnabilità (sussiste contrasto tra il Consiglio di Stato, sez. VI, 1 luglio 2005 n. 1008, che afferma la giurisdizione amministrativa e le Sezioni Unite, 1 luglio 2008 n. 17930, che, al contrario, affermano l'impugnabilità dell'ordinanza di liquidazione avanti il giudice ordinario a'sensi dell'art. 814 commi 2 e 3: soltanto l'ordinanza del Tribunale avrebbe l'efficacia di titolo esecutivo contro le parti).
10) Il regime transitorio.
L'art. 15 comma 6 del D.Lgs n. 53/2010 stabilisce che "la disciplina introdotta dagli artt. 4 e 5 si applica ai bandi, avvisi di gara ed inviti pubblicati successivamente all'entrata in vigore del presente decreto, nonchè ai contratti aggiudicati sulla base di essi e ai relativi giudizi arbitrali".
Pertanto la novella non si applica ai procedimenti arbitrali in corso e nemmeno a quelli che dovessero venire promossi sulla base di clausole compromissorie precedenti al 27 aprile 2010.
11) Verso la rivitalizzazione dell’arbitrato?
E’ difficile fare previsioni sull’impatto che avrà la novella sulla sorte dell’istituto arbitrale.
La doccia scozzese che ha caratterizzato nell’ultimo quadriennio la vicenda ha concorso a determinare una certa disaffezione per l’istituto, specie, specie da parte delle amministrazioni pubbliche, e ciò per tre ragioni:
a) per il costo molto elevato, specie in base alle tariffe forensi, determinato sulla base del valore del petitum, spesso artificiosamente gonfiato;
b) per il sospetto di una sorta di parzialità “ambientale” (per parafrasare un’espressione divenuta celebre da più di un quindicennio) a favore delle imprese;
c) per l’eccessiva rapidità del giudizio, rispetto a quello ordinario, che costringeva spesso le amministrazioni a fare i conti troppo presto con i propri errori di gestione dell’appalto.
Hanno contribuito non poco a creare la cattiva fama degli arbitrati le inchieste giornalistiche, che, da un lato, riferivano la misura dei compensi percepiti dai magistrati del Consiglio di Stato chiamati a presiedere collegi arbitrali e, dall’altro, l’altissima percentuale si soccombenza della pubblica amministrazione nei procedimenti arbitrali.
(Una piccola annotazione: a molti osservatori critici, compreso l’ottimo Gianantonio Stella, autore di memorabili inchieste sull’argomento, sfugge che la ragione della soccombenza di gran lunga prevalente delle amministrazioni va ricercata nella pessima gestione degli appalti: a cominciare dalla progettazione, in un quadro normativo ancora troppo farraginoso, più che in un “favor” per le imprese).
Quali modifiche ha introdotto il legislatore delegato per vincere le diffidenze verso l’arbitrato?
a) riduzione drastica dei compensi degli arbitri: basti pensare al tetto invalicabile di 100.000 euro per l’intero collegio arbitrale, indipendentemente dal valore e dalla complessità della controversia;
b) creazione di una nuova incompatibilità per il terzo arbitro, la cui violazione è sanzionata addirittura con la nullità del lodo;
c) accelerazione del procedimento di impugnazione avanti la Corte d’Appello ed enfatizzazione dell’inibitoria (già prevista dal codice di rito), quasi a fornire una garanzia psicologica alle amministrazioni pubbliche di maggior tutela nella fase cautelare.
Saranno sufficienti queste modifiche per rivitalizzare l’arbitrato nella materia dei contratti pubblici?
V’è da dubitarne.
Va infatti rilevato che la norma sull’incompatibilità a svolgere le funzioni di presidente comporterà di fatto l’esautoramento degli avvocati esperti della materia dalla presidenza dei collegi arbitrali, con l’ovvia conseguenza che le parti saranno di fatto indotte a scegliere il terzo arbitro tra i magistrati amministrativi, che non verranno a trovarsi quasi mai nella situazione di incompatibilità prevista dal comma 5 dell'art. 241 giacché è piuttosto raro che i magistrati vengano chiamati a svolgere le funzioni di arbitro di parte.
Riemerge a tal proposito l’antica quérelle sull’opportunità di continuare a consentire ai magistrati amministrativi di presiedere i collegi arbitrali: ciò che, come ben si sa, ai magistrati ordinari è precluso in base a disposizioni regolamentari dal Consiglio Superiore della magistratura.
Perchè noi no e loro sì, si chiedono ogni tanto i magistrati ordinari?
Il legislatore delegato nell’introdurre l’incompatibilità del comma 5 dell’art. 241, ha ritenuto che l’aver già avuto dimestichezza con gli arbitrati leda l’indipendenza del terzo arbitro, con conseguente rischio di imparzialità.
Il coinvolgimento negli arbitrati dei magistrati amministrativi non incontrerebbe controindicazioni se essi non continuassero ad esercitare la giurisdizione imbattendosi non solo nelle parti dell’arbitrato in corso o già deciso (dovrebbe scattare in tal caso l'obbligo di astensione di cui all’art. 51 c.p.c.), ma, soprattutto, negli avvocati che li hanno designati o comunque che ne hanno determinato la designazione.
Siamo sicuri che indipendenza e imparzialità vengano in tal modo tutelati a sufficienza?
Forse sarebbe stata più saggia la scelta di rafforzare il ruolo della camera arbitrale (che oggi ha soltanto il potere di nominare il terzo arbitro soltanto in caso di mancato accordo: art. 241 comma 15) cui dovrebbe essere assegnato il compito della formazione dell’albo degli arbitri, con adeguata valutazione dei titoli, tra i quali le parti siano obbligate a scegliere il presidente: eventualmente con il ripristino della previsione contenuta nell’art. 151 del regolamento (annullato dal Consiglio di Stato) che vietava ai presidenti di svolgere, nei triennio di appartenenza all’albo, l'incarico di arbitro di parte.
Ultimo aggiornamento ( lunedì 26 aprile 2010 )