Ai margini del Convegno di Cortina: pubblico e privato
mercoledì 10 settembre 2014

 Di Ivone Cacciavillani.

Il tema del Convegno di Cortina, L’azione amministrativa consensuale tra suggestioni privatistiche e vincoli di diritto pubblico, indubbiamente allettante -se non addirittura provocatorio alla luce anche di recenti eventi “locali”- se ha avuto, in numerose delle interessantissime Relazioni svolte, risposte di grande interesse sul piano sia sistematico che operativo, ha anche suscitato non poche riserve su taluni temi enunciati proprio sul clou del tema, sul rapporto pubblico-privato nei rapporti di amministrazione consensuale. Ha particolarmente urtato l’affermazione, più volte reiterata, del Primo Relatore, di non aver capito ruolo e funzione di quel comma 1 bis dell’art. 1 della L. 241/1990, aggiunto con la L. 15/2005: ”la PA nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”. Un fuor d’opera secondo il dotto Relatore, illustrato col richiamo di opinioni dei Grandi del diritto amministrativo e con dovizia di dotti richiami cattedratici: quand’anche la PA agisca -per legge o per scelta discrezionale propria- jure privatorum, sempre PA resta, portatrice d’interessi pubblici per lor natura preminenti su quelli privati, di tal che il Giudice, chiamato ad interpretare/applicare gli atti/contratti formalmente privati della PA, deve sempre operare con favor del pubblico interesse in ragione della qualificazione soggettiva dell’agente/contraente pubblico. Ha particolarmente intrigato sul punto l’aver ravvisato nella sentenza dell’Ad. Plen. del Consiglio di Stato n. 14 del 2014, che, chiamato a stabilire se, in caso d’interruzione dell’appalto d’opera, si potesse far luogo alla revoca dell’aggiudicazione o al recesso di cui all’art. 134 del codice dell’appalto, ha stabilito la necessità del recesso, il principio generale della possibilità della PA di recedere dai contratti di durata, sostanzialmente creando un diritto contrattuale pubblico diverso da quello solo privato. Senz’avvedersi che il recesso dall’’appalto di opera pubblica era già regolato dall’art. 345 della “Legge fondamentale” 2248/1865, in perfetto parallelo con l’appalto privato regolato (stessa formulazione, stesso regime) dall’art. 1641 del codice civile del 1865. L’istituto era (ed è) sostanzialmente a comune favore di ambedue le parti del contratto: dell’appaltante, tenuto a recedere dal contratto di durata ove fossero mutate le sue condizioni economiche al punto da rendergli impossibili i pagamenti convenuti; dello stesso appaltatore, liberato da un’obbligazione di fare che rischiava di restare incapiente. Tutt’altra cosa l’argomentare giuridico!

Invero la tesi esposta è l’esatto contrario di quanto opina il sottoscritto -che ovviamente non si perita certo di contrapporsi ad un Maestro- che ritiene di non potersi esimere dal contrastare inter nos (in foro interno, si potrebbe ben dire) tesi da cui visceralmente dissente, s’è vero che gl’incontri anche scientifici sono sempre e solo confronti, mentre d’altro canto e per dirla alla veneta, “la bocca si lega solo ai sacchi”. L’esatto contrario, ribadita l’enorme valenza sistematica di quel comma 1 bis dell’art. 1 della L. 241; per cento ragioni ch’è impossibile enumerare analiticamente (ci fosse un luogo d’incontro!), ma ad alcuna delle quali non è possibile sottrarsi.

  Primo fra tutti l’assetto costituzionale. Non è rilievo di ieri che l’intera impostazione dell’assetto burocratico della Repubblica è ancora saldamente ancorato ai principi dello Statuto Albertino del 1848, di cui continua venir applicata la fondamentale disposizione dell’articolo 5, secondo cui ”al Re solo appartiene il potere esecutivo”. Al Re solo! In questa logica, par ovvio che se anche in taluni casi egli depone momentaneamente la corona regale, sempre Re resta, ed i suoi atti sempre atti del Re e come tali vanno intesi ed applicati! L’hanno detto in tanti, fior di dottori; così la pensano anche grandi maestri stranieri con enunciati severi e perentori (ohimè la terminologia estera che sfugge!). Così è e così dev’essere!

E la Costituzione? L’art. 3 sul principio di uguaglianza delle parti; l’art. 98, che pone i pubblici impiegati al servizio esclusivo della Nazione? Che c’entra! Il Re resta sempre il Re!

Ma chi scrive preferisce un altro filone d’argomenti. In materia contrattuale, da tutte le regole interpretative del Codice (artt. 1362-1371) si trae chiaramente il netto favor per il contraente debole. Quando il Re-PA depone la corona e decide di agire come soggetto privato, sotto sotto sempre Re resta. Chi contrae con la PA può certo essere versatissimo nella materia, ma può anche essere un Toni qualsiasi, che, trovandosi a contrattare con dei Funzionari pubblici -i migliori della piazza perché vi son giunti per aver vinto un concorso (art. 97 Cost.)- non può che aver ruolo di contraente debole (salvo ovviamente che il terreno sia stato preventivamente umidificato da qualche ammennicolo di peculiare forza di convincimento), di tal che se qualche favor c’ha da essere, esso va alla controparte privata.

Ecco taluna delle molte ragioni di radicale dissenso dalle conclusioni di quella prima Relazione ed ecco la funzione sistematicamente provvida di quel comma 1 bis dell’art. 1 della L. 241, che inibisce qualsiasi trattamento (anche solo interpretativo) di favare della PA che abbia scelto di agire jure privatorum (senza corona regale). Chè se, per infedeltà alla funzione o per insipienza contrahendi, la PA avesse subito pregiudizio da un contratto mal concluso, dovrà risponderne lo sprovveduto Funzionario che abbia agito causando danno alla “sua” PA, vedendosela con la Corte dei conti. Senza che vi si possa ovviare col condizionamento del sinallagma contrattuale.